Perché l’economia italiana si è fermata? Perché si sta fermando la Germania, è la risposta più comune. Vero, ma solo in parte e forse non la parte principale. Perché la Germania si sta fermando? Per colpa dei dazi di Trump, si dice. Anche questo è una parziale verità. Germania e Italia sono legate indissolubilmente. Troppo? Il modello di specializzazione che ha reso la manifattura italiana grande fornitrice di quella tedesca finora era stato una nostra forza, ma ora diventa una debolezza, sostengono molti analisti, quindi bisogna cercare altrove gli sbocchi. E dove? Negli Usa protezionisti? Nella Cina che si chiude in difesa? In ogni caso le imprese italiane lo hanno fatto, tanto che negli ultimi anni il boom delle esportazioni che ha tenuto a galla il Paese, si è orientato soprattutto verso i paesi al di fuori dell’euro.
Non basta, evidentemente, così come non basta l’export a far crescere l’Italia intera. E questo è vero anche per la Germania e buona parte dell’Europa: una crescita che dipende totalmente dalle esportazioni può essere anche rapida e tumultuosa, ma può cadere in modo altrettanto precipitoso. All’Ue manca la domanda interna per investimenti, cioè la locomotiva di medio-lungo periodo. La crisi ha colpito duro, dalle infrastrutture al capitale umano, e la ripresa non ha ricostituito le risorse produttive perdute, nemmeno là dove, come nei Paesi del nord Europa, la disoccupazione è tornata ai minimi o si è raggiunto di fatto il pieno impiego.
L’Italia è rimasta ancor più indietro e adesso è entrata in una fase che potremmo chiamare di vera e propria recessione psicologica. Il 65% delle imprese italiane pensa che il Paese sia già in recessione, mentre per l’11% lo sarà fra un anno. Lo afferma una ricerca di Instrum, uno dei maggiori operatori europei nei servizi al credito, condotta attraverso uno studio che ha coinvolto oltre 11mila imprese di 24 Paesi, 600 in Italia. Per difendersi, il 55% delle aziende italiane pensa di ridurre le spese e il 40% di fare meno ricorso al credito. Solo il 21% delle imprese pensa di incrementare le attività di sviluppo del proprio business.
La risposta è naturale e spontanea: mettiamoci al riparo, apriamo gli ombrelli e gonfiamo i salvagente. Non sono solo sensazioni, sia chiaro; le imprese italiane hanno difficoltà a ottenere credito più della media europea, nonostante i tassi di interesse molto bassi, perché le banche italiane si sono fatte molto più caute e anch’esse si sono messe al riparo centellinando se non riducendo la loro attività principale, cioè fare prestiti. La crisi dello spread nell’autunno scorso ha suonato un campanello (anzi un campanone) d’allarme, proprio mentre la domanda estera stava rallentando. È riapparso lo spettro del 2011, le perdite in borsa e il rimbalzo degli interessi hanno spinto i risparmiatori a preferire la liquidità, mentre chi aveva intenzione di investire per espandere l’attività ha pensato bene di attendere. Anche perché dal Governo non è arrivato nessun messaggio rassicurante.
La Legge di bilancio per il 2019 con l’obiettivo di un disavanzo pubblico del 2,04%, nonostante le promesse e le roboanti dichiarazioni non conteneva quella spinta agli investimenti pubblici che avrebbe potuto compensare la freddezza degli investimenti privati. Né il reddito di cittadinanza, né le pensioni anticipate hanno dato quell’impulso alla domanda per consumi sbandierato dai ministri e dagli economisti governativi. Per il 2020 le attese non sono affatto rosee. Intanto, c’è sempre un macigno di 23 miliardi di euro dal qual liberarsi: sono le clausole di salvaguardia che impongono un aumento delle imposte indirette. A esse si aggiungono una serie di spese rinviate e di buchi coperti con il tappeto che portano a una quarantina di miliardi le risorse da recuperare.
Ricomincia così il balletto tra la Lega che vuole la flat tax e il Movimento 5 Stelle che vuole il salario minimo per legge, una sorta di replica del dualismo che lo scorso anno ha assorbito le (scarse) risorse disponibili deviandole dagli investimenti produttivi verso la distribuzione di un reddito che, in effetti, non è stato prodotto. Il 2020 si presenta più avaro di possibilità anche perché la stagnazione già riduce gli introiti del Governo e spinge in alto le spese per gli ammortizzatori sociali, allargando spontaneamente il disavanzo pubblico.
Chi lavora, chi organizza le proprie attività in vista della riapertura post-feriale, avrebbe bisogno di ricevere un messaggio chiaro, o per lo meno di capire verso quale obiettivo principale viene orientata la politica economica. Mettere più soldi nelle mani degli italiani può essere uno slogan elettorale, se non si dice come, quanti soldi e per fare cosa. Il mondo produttivo si attende non tanto che vengano distribuiti a pioggia, lanciando dall’elicottero come paradossalmente diceva Milton Friedman, banconote stampate a debito, ma che le risorse siano concentrate in settori e in attività capaci di mettere davvero in moto l’economia.
Gli incentivi agli investimenti di Industria 4.0 hanno funzionato, ma al Governo giallo-verde non piacciono. Le infrastrutture sono ferme soprattutto per colpa dei 5 Stelle, incapaci di mettere in moto anche le cosiddette “piccole infrastrutture” delle quali parla il ministro Toninelli. Su Autostrade un giorno sì uno no, viene lanciata la minaccia di esproprio. L’Ilva rischia di chiudere tra calo congiunturale della produzione e braccio di ferro sulla responsabilità legale per la ristrutturazione ambientale. Al ministero dello Sviluppo si moltiplicano i “tavoli di crisi” e il brutto deve ancora venire.
Il credito resta un problema acuto soprattutto nel sud e la risposta è una riedizione della Cassa per il mezzogiorno o della Banca per il sud che non è mai decollata. Un’altra banca mentre ce ne sono persino troppe, un altro carrozzone, con quali quattrini e per fare che esattamente? La Cassa depositi e prestiti viene tirata in ballo per tutto, dalla rete telefonica all’Alitalia, dal polo delle costruzioni a quello del turismo. E dove trova i soldi? Dal risparmio postale con il quale gli enti locali pagano le loro spese? La coperta è cortissima, bisogna ingrandirla, per farlo il telaio deve lavorare in una sola direzione: aumentare la produzione e non promettere di distribuire quel che non c’è. Altrimenti la recessione da psicologica diventerà presto materiale.