Nel pomeriggio del 13 settembre 2022 sono stati pubblicati i dati relativi all’inflazione generale e core dei beni al consumo degli Stati Uniti, e riferentesi ad agosto 2022 in tendenziale sull’anno. Abbiamo pertanto 6,3% per l’inflazione core e 8,3% per quella complessiva del paniere dei beni; il consensus di Wall Street aveva come aspettativa l’8,1% per l’inflazione complessiva e il 6,1% per quella core. Invece, chi scrive aveva previsto l’8,6-8,7% con intervallo minimo all’8,3% avendo così un eccesso di sovrastima nel puntuale intorno allo 0,3%, mentre l’intervallo minimo di riferimento della stima ha avuto contezza del dato effettivo.
Comunque, il dato inflattivo ha spaventato i mercati con il Dow Jones che ha perso circa il 4% e questo perché soprattutto la lettura del dato core è risultata essersi incrementata, ed essendo questo aspetto legato alle componenti meno volatili dell’intero indice, tutto ciò ha come corollario che l’inflazione è molto più radicata oramai nell’intero tessuto sociale ed economico statunitense.
Infatti, l’incremento delle componenti volatili è risultato essere in diminuzione per i fattori energetici, ma in incremento per i beni alimentari e questo si ricordi è accaduto in un periodo che inizia dal 20 di luglio dal quale il prezzo del barile Wti del petrolio scende sotto i 100 dollari per arrivare a lambire valori minimi di 87,50; si vuole cioè sottolineare con questi ultimi numeri che l’inflazione negli Usa resta alta e di fatto non scende anche avendo potuto benificiare di un decremento dei prezzi del petrolio Wti che hanno avuto il picco a 131 dollari al barile verso i primi di giugno.
Domanda quindi quasi consequenziale: cosa accadrà ora che la luna di miele, per svariate ragioni, con i prezzi del greggio sta terminando?
Cerchiamo allora di analizzare non le dinamiche del petrolio che non sono nel controllo delle autorità monetarie e di bilancio pubblico degli Usa, bensì nel controllo di attori esterni: Opec +, Russia, tensioni geopolitiche e via dicendo; focalizziamoci pertanto su ciò che possono fare le autorità monetarie e quindi parliamo della Fed. La Fed di fronte a questo nuovo mondo sta reagendo con i canonici inasprimenti dei tassi di interesse federali nel tentativo appunto di fermare, o meglio rallentare l’inflazione, quindi analizziamo con cura lo scenario.
Innanzitutto, va detto che la prima reazione istintiva e oserei dire antropologica di ogni banca centrale del mondo è che di fronte all’innalzamento generalizzato dei prezzi la medicina sicura ed efficace come l’aspirina è il rialzo dei tassi di interesse che tramite il meccanismo di trasmissione di crediti e prestiti più costosi per famiglie e imprese blocca la loro spinta agli investimenti e al consumo e così facendo diminuisce la domanda, porta a un’offerta di fattori in eccesso che per tale via per essere assorbiti devono ridursi nei prezzi.
Questo presentato è lo schema canonico che ha però perlomeno il pregio di essere fortemente robusto fino a tassi inflattivi dell’area del 5% sia quando c’è inflazione da domanda che da offerta, mentre le cose diventano a mano mano più complicate e molto meno lineari con l’innalzzamento progressivo del tasso inflattivo, fino a una soglia del 9,5-10%, in cui la relazione tassi di interesse e tasso di inflazione diventa non più facilmente descrivibile.
In sostanza, a tali livelli aumentare i tassi di interesse in risposta ad alti tassi inflattivi innesca due meccanismi principali di trasmissione opposti tra di loro, dove il primo, canonico, lo abbiamo descritto sopra, mentre il secondo è del tipo seguente: a più alti tassi di interesse le imprese reagiscono considerandolo un costo da ricaricare per non perdere i margini di profitto e seguendo questa via non fanno altro che incrementare ulteriormente i prezzi in un grande circolo vizioso. Anche i consumatori, con più alti tassi di interesse in presenza di alti tassi inflattivi, ne approfittano cercando di diminuire notevolmente le duration dei propri investimenti finanziari per investire e consumare il ricavato e quindi anche per questo motivo tensione viziosa sui prezzi complessivi.
Pertanto, qual è il lato veramente importante di aumentare i tassi di interesse in presenza di alte inflazioni? La risposta sta in quella che in gergo tecnico viene chiamata “ancora delle aspettative, cioè a dirsi che alti tassi di interesse segnalano soprattutto alle imprese che il futuro è divenuto più incerto e pericoloso, e che quindi fare attività d’impresa richiede chiare e sicure scelte sui progetti da fare, e in tal modo così restano sul mercato soltanto le imprese più agguerrite e sicure, mentre quelle più incerte, che di norma dovrebbero essere la maggioranza, tirano i remi in barca, avendosi in tal modo come effetto finale desiderato che gli indici borsistici virino verso il basso in maniera il più possibile controllata e senza scossoni sistemici; cosa che invece accadde nel 1929, dove a fronte delle tensioni sui tassi sempre più violente, la mancata sponda di liquidità da parte della Fed favorì crisi sistemiche e irreversibili nel breve; in più chiare lettere, gli scossoni del 1929 vennero recuperati solamente dal 1934 in avanti negli Stati Uniti.
Corollario attuale di tutte le esternazioni precedenti, è che il ritiro di liquidità annunciato da parte della Fed è bene che resti solo un annuncio, in quanto le riduzioni di base monetaria possono portare a pericoli ben superiori a quelli supposti; tutto questo perché la combinazione di alta inflazione, alti tassi di interesse, fibrillazione e scompiglio della velocità di circolazione della moneta e riduzione netta della base monetaria può portare a eventi cataclismatici, in stile 1929 appunto.
Ma allora, dato che l’autorità monetaria in presenza di alte inflazioni ha le sue armi spuntate, chi può accorrere in suo aiuto per domare il fenomeno degli alti prezzi? La risposta, come da teoria e da prassi, è immediata e incontrovertibile, in quanto è l’autorità preposta al bilancio pubblico o federale che si deve mettere in moto; detto meglio, quando l’inflazione è alta e va abbattuta, all’innalzamento dei tassi di interesse va abbinata la riduzione efficace di ogni tipo di disavanzo interno ed esterno; solo che nell’attuale momento storico si può agevolmente osservare che tutti gli Stati occidentali più importanti, compreso il Giappone, hanno debiti e disavanzi in continua crescita, e tutto questo per sopperire alle continue modificazioni del passare dei tempi, del loro variare, delle variazioni demografiche e antropologiche, e poi tecnologiche e così via.
E allora, come si fa a eliminare il cortocircuito? Bene, qui siamo nel terreno delle teorie e delle pratiche politiche più disparate, e chi scrive può solo rispondere per le proprie convinzioni. Le quali sono che in presenza di alte inflazioni, alle manovre di innalzamento dei tassi di interesse necessarie a produrre l’ancoraggio delle aspettative vanno diminuiti e quasi azzerati i disavanzi pubblici, però per non abbattere la domanda di investimenti e consumi va trovata e progettata un’efficace politica fiscale, che altro non consiste che nel tassare fortemente le ricchezze private e usare il ricavato da spalmare a saldo zero per i consumi e gli investimenti aggregati dell’intero Stato; unica altra ricetta vera e differente da questa presentata è secondo me un’abbondanza di beni e di fattori produttivi paragonabili al paese di Bengodi.
Ovviamente, come riportato prima ci sono tantissime teorie e ricette del tutto diverse da quella da me qui illustrata, ma a me convincono poco, e per fare l’esempio più calzante, vi presento la più paradigmatica tra tutte: la robusta e indefinita crescita del Pil che risolve tutti i problemi; ma vogliamo riflettere sul fatto che sono oramai 40-50 anni che viene propinata tale ricetta rassicurante, e poi l’effetto finale è quello di avere debiti pubblici esplosi e giganteschi in tutte le più importanti economie?
Ecco allora che una delle sfaccettature più inquietanti dell’attuale inflazione sulle due sponde dell’Atlantico è che essa si sia ripresentata perché è l’unica ricetta concreta per abbattere debiti pubblici sfuggiti al controllo dei Governi.
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