Se c’è un segnale simbolico di come la globalizzazione finanziaria sia a una svolta – cioè che non sarà più quella degli ultimi trent’anni – questo è il tramonto di Goldman Sachs: che di un’era è stata autentica banca “prima inter pares”, leader sui mercati e incarnazione di un primato di cultura capitalistica. In questi giorni Goldman è alle cronache per una maxi transazione da 215 milioni dollari a favore di tutte le donne che sono o sono state dipendenti del gruppo: e che finora sarebbero state vittime di continue discriminazioni sessuali. Ma non si è ancora spenta l’eco dello scandalo 1MDB  che ha colpito in modo ben più grave reputazione, bilancio e quotazione in Borsa di quella che è stata per antonomasia la “banca centrale della globalizzazione”. Goldman (il cui Ceo David Solomon è dato da un anno sul piede d’uscita) ha dovuto sborsare 2,9 miliardi in risarcimenti danni e incassare un condanna a 10 anni di carcere per un suo ex banchiere in Malaysia per chiudere un’inchiesta su illeciti miliardari ai danni del Governo di Kuala Lumpur.



Goldman non è più sinonimo di investment banking a cinque stelle e anche il tentativo di riconversione del suo business model sul versante dei servizi finanziari personali non ha dato i risultati sperati. Il titolo aveva ripreso vigore durante la stagione-Covid, ma da un anno è molto volatile. E ancora a proposito di Asia:  in nome della sua vocazione globalista  l’invecchiata regina di Wall Street è stata lungo la “moderatrice” dello sviluppo di lungo periodo delle relazioni geo-economiche fra Usa e Cina (il grande ambasciatore era l’ex Ceo Hank Paulson, segretario al Tesoro ai tempi del crack Lehman). Ma molte “ere Goldman” sembrano ormai pronte per gli archivi: come quella in cui, fra l’altro, in un Paese come l’Italia, erano indifferentemente top advisor/manager di Goldman un premier politico (progressista) come Romano Prodi e due Premier tecnocratici (moderati) come Mario Monti e Mario Draghi.



Fu quest’ultimo, come Direttore generale del Tesoro, l’anfitrione del celebre “Britannia party”:  organizzato da Goldman Sachs nel 1992 per lanciare in grande stile le privatizzazioni italiane, forse il più grosso “boccone” imbandito nell’Europa dell’unione monetaria. In quel gigantesco processo (che ebbe al centro le banche Iri, Imi  Ina, Telecom, Autostrade e molto altro) maturò un cambio d’epoca di primo livello. Le destatalizzazione avvenne con l’applicazione rigorosa del metodo Draghi-Goldman: con collocamenti integrali in Borsa e la trasformazione dei grandi gruppi ex pubblici in public company controllate dal mercato. Nei fatti fu messo in discussione il ruolo di Mediobanca, regina indiscussa del capitalismo finanziario nazionale per quattro decenni, con un netto orientamento per la finanza creditizia.



Via Filodrammatici riuscì a difendersi in modo elastico. Recuperò  Comit e Credit (le due “Bin” milanesi sue azioniste) riportandole nella sua orbita attraverso “noccioli duri” di suoi soci. Riaggregò l’Ina nelle Generali. (che rimane tuttora il “gioiello della corona” di piazzetta Cuccia) Soprattutto: presidiò Telecom in tutte le fasi iniziali della sua “vita privata”, dall’Ipo del 1997 all’Opa della “razza padana”, alla stagione-Pirelli.

La presa di Goldman sull’Italia è d’altronde durata a lungo: basti pensare al ruolo decisivo nella nascita di Banca Intesa (oggi primo campione nazionale) oppure all’azione di banchieri come Claudio Costamagna e Massimo Tononi (entrambi ai vertici di Cdp). Oggi certamente, sembra finita anche quell’epoca, mentre si è fatta via via più esteso l’impegno della Cassa depositi e prestiti (più che simbolicamente in Telecom), coerente con il ritorno al binomio pubblico/nazionale di una tendenza de-globalizzatoria. Ma proprio in questo scenario sembrano esservi condizioni importanti per un un rilancio di Mediobanca nel suo terreno privilegiato di banca d’affari. E non è stato certo un passo simbolico, giusto in questi giorni, l’apertura degli archivi dell’istituto dalla fondazione fino al 1973.

Sono stati questi gli anni del Boom postbellico in cui la “Banca di Credito Finanziario” creata e animata da Enrico Cuccia consolidò il suo primato di banca della grande impresa nazionale. Il giro di boa di quella stagione fu la nazionalizzazione dell’Enel e la messa in circolo di robusti indennizzi pubblici agli ex gestori privati. Mediobanca fu protagonista della maggiore operazione collaterale: la fusione fra Edison e Montecatini. Ma è noto – e gli archivi sono ora aperti per confermare e approfondire la tematica – che Cuccia aveva concepito che tutti gli indennizzi pubblici all’industria elettrica venissero convogliati in un grande fondo f’investimento: una sorta di “fondo sovrano italiano”. Mediobanca – nella migliore tradizione della finanza anglosassone – avrebbe dovuto fungere da advisor, elaborando progetti d’investimento votati allo sviluppi della fascia alta dell’Azienda-Italia di allora. Sessant’anni dopo – lo confermano quasi quotidianamente esponenti del Governo in carica – il fondo sovrano italiano è un dossier pronto per essere lanciato operativamente. E sarà difficile ignorare l’indiscutibile biglietto da visita di Mediobanca.

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