“Lo Stato non ha altro denaro se non quello che le persone guadagnano. Se lo Stato desidera spendere di più, può farlo solo intaccando i tuoi risparmi o tassandoti maggiormente. E non è un giudizio saggio quello di credere che qualcun altro pagherà. Perché quel qualcun altro sei tu. Non esistono cose quali soldi pubblici. Esistono solo soldi dei contribuenti”. Certo per alcuni queste stringenti e brutali verità, che la signora Thatcher ricordava, non sono incontrovertibili. C’è chi crede – ad esempio il primo consigliere economico del maggior partito di opposizione – che basterebbe qualche rotativa e i soldi di cui ha bisogno un Paese si possano stampare ad libitum senza conseguenze. Chi, che se li si seppellisce nel campo dei miracoli germoglino tanti e rigogliosi. Rimanendo tuttavia nelle grigie pieghe della realtà a cui il ruolo lo costringe, nei giorni scorsi Ignazio Visco ha dovuto ricordare a un Paese dalla pressione fiscale stellare, la cui politica pullula di gatti e volpi, che “iI fondi europei non potranno mai essere ‘gratuiti’: un debito dell’Unione europea è un debito di tutti i Paesi membri e l’Italia contribuirà sempre in misura importante al finanziamento delle iniziative comunitarie, perché è la terza economia dell’Unione”.



Certo sono tutte da capire le proporzioni tra Paesi. Chi prende, quanto prende e quanto paga nel lungo periodo. Quanti soldi il Recovery fund chiederà al mercato, quanti di essi verranno ridati al medesimo fondo in quanto presi solo in prestito dai singoli Stati beneficiari. Nella proposta della Commissione si parla di un ammontare complessivo di 750 miliardi di euro, di cui 500 miliardi a fondo perduto e 250 miliardi in prestiti. Dell’intera somma 172,7 miliardi sarebbero destinati a Roma: 81,807 miliardi in forma di aiuti e 90,938 miliardi da restituire con comodo e a bassi interessi.



Roberto Perotti stima che essendo l’Italia un contributore netto del bilancio (dopo Germania e Francia), rimanendo queste le proporzioni, il “guadagno” italiano sarebbe tra i 17 e i 23 miliardi di euro spalmati in quattro anni. Spogliato da ipocrisie il duro confronto dietro le quinte che dovrà portare al Consiglio europeo straordinario del 17 e 18 luglio p.v. è tutto lì, con ogni governo che difende i soldi dei contribuenti di cui parlava la Thatcher, naturalmente i suoi, quelli che votano.

Per questo la difficile discussione di questi giorni verte: sull’ammontare complessivo del Next Generation EU Fund, con i “frugal four” determinati ad abbatterne il valore, sulle poste dei singoli “rebate” nazionali al bilancio pluriennale (per il periodo 2021-2027), su come dovranno essere distribuite le risorse tra i Paesi, su quanta parte di esse dovrà essere restituita e quanta no, su quali siano le “condizionalità”, che debbano collegarsi alle elargizioni, in particolare quelle a fondo perduto. Con quest’ultimo aspetto esacerbato da uno storico altissimo grado di sfiducia sugli impieghi italiani non esattamente aiutato dalle vette di fantasia della recente “bonus economy” del Governo. Da qui la necessità espressa dai “frugali” e ribadita in un recente articolo sul Financial Times a firma congiunta dei capi di governo olandese, austriaco, danese e svedese, di chiedere in cambio degli aiuti “riforme” che permettano agli Stati membri di essere “meglio preparati per la prossima crisi” orientandoli a “ricerca e innovazione” e attuare la “transizione verde” e “digitale” al centro del Green Deal Ue.



Una comprensibile richiesta di rassicurazione da parte di Stati, dimostratisi più accorti e rispettosi verso le generazioni future, che i loro sacrifici fiscali vadano ad aumentare l’anemica produttività italiana e non siano invece bruciati sull’altare del consenso dell’enorme spesa improduttiva del Bel Paese. Per essere più espliciti che quell’imponente mole di risorse finanziare mai viste negli ultimi trent’anni in Italia, da spendere dal 2021 al 2028, non servano al Governo pro-tempore di Roma per comprarsi i voti delle prossime elezioni. Preoccupazioni che pesano come macigni in questo negoziato e a cui il Governo Conte ha pensato bene di rispondere non inviando ancora a Bruxelles il piano di riforme nazionali 2020 (PRN). Unico paese nell’Ue. Anche la Gran Bretagna, ormai fuori, lo ha trasmesso. Piano che andrà ancora una volta a confrontarsi con le specifiche raccomandazioni per paese (RSP) e con i soliti richiami che da anni la Commissione paranoicamente indirizza all’Italia sui suoi cronici squilibri macro e micro economici.

In estrema sintesi e come noto all’universo mondo: poca spesa per investimenti, poca istruzione terziaria, poche riforme del mercato del lavoro e della contrattazione collettiva, poca concorrenza, Pubblica amministrazione poco efficiente, giustizia lenta, molta spesa improduttiva, molte tasse, soprattutto sul lavoro e dirette che meglio potrebbero essere distribuite su indirette. Indicazioni puntualmente e sovranamente disattese non tralasciando di dire agli italiani che era “l’Europa” e le sue politiche di “austerity” a voler piegare un popolo a colpi di tasse. Perché se nell’ambito del Patto di stabilità e crescita l’Ue ha veri poteri coercitivi sui saldi di bilancio degli Stati, non così accade quanto alle politiche economiche in cui le raccomandazioni della Commissione sono armi spuntate (in quanto non vincolanti). Non a caso infatti, sempre sovranamente, mandiamo ancora gente in pensione a 62 anni, distribuiamo reddito a pioggia senza adeguate politiche attive, o rivendichiamo il diritto di bruciare soldi nelle nuove e vecchie fornaci: Alitalia, Ilva, Atac, per citarne alcune, senza che nessuno possa dirci niente.

Le ultime anticipazioni su questa complessa trattativa parlano di una linea Maginot, franco-tedesca, sull’ammontare complessivo del Recovery fund che dovrebbe reggere l’urto dei frugali per una sua riduzione, a spese però del bilancio pluriennale 2021-2027, che dagli ipotizzati 1,1 trilioni della Commissione dovrebbe essere leggermente ridotto. Riduzione che consentirebbe ai contributori netti (di cui non farebbe più parte l’Italia per la durata del piano) di mantenere, nonostante l’uscita della Gran Bretagna, i loro sconti nazionali al finanziamento dell’Ue (“rebate”), ma intaccherebbe i programmi più ambiziosi di lungo periodo dell’Unione, difesa e ricerca in testa. A meno che ed è questo il fronte più promettente che rafforzerebbe sostenibilità del bilancio e indipendenza europea, si facciano significativi progressi sul fronte dei nuovi strumenti fiscali su base continentale (carbon tax, digital tax, financial transaction tax). Progressi altamente improbabili nell’immediato perché implicherebbero una trasformazione radicale dell’attuale Unione a cui, riconoscendo un’autonoma capacità fiscale di cui si discetta da anni, si riconoscerebbe una distinta sovranità rispetto agli Stati membri.

Se esistessero tasse genuinamente europee ne seguirebbe, secondo il noto e inderogabile principio di ogni Costituzione del no taxation without representation, che debba essere il Parlamento europeo a deciderle e che dunque esiste una democrazia europea e un popolo europeo su cui un’autonoma sovranità europea si esercita. Semplicemente inimmaginabile per i rapporti di forza di oggi limpidamente fotografati dalle sentenze della Corte Costituzionale tedesca.

Bene farà comunque il premier Conte a non dimenticare nel suo negoziato volto a indirizzare in Italia una maggior quota possibile di risorse del fondo e in una percentuale più ampia possibile senza obbligo di restituzione, che esso sarà tanto più efficace quanto coerentemente accetterà le conseguenze dell’uso dei soldi dei contribuenti di altri Paesi, evitando puerili e distoniche rivendicazioni di indipendenza nella gestione dei fondi e non rifiutando ogni percorso concordato di riforme volto a non dover bussare ancora alla porta degli altri nel prossimo futuro. Perché le terribili “condizionalità” altro non sono che quello che comunque andrebbe fatto e da tempo se si vuole riprendere a crescere. E potrà tornare perfino utile a una politica debole, nella somministrazione di alcune medicine, incolpare il sadico medico europeo.