Da giovedì scorso, data della penultima riunione dell’anno del board della Bce, lo spread italiano ha cominciato una salita che l’ha portato sopra i 130 punti base. I rendimenti di tutti i titoli di stato europei, Bund compresi, sono aumentati, ma quelli dei Btp più degli altri, tornando ai livelli di oltre un anno fa. «Un rialzo di questo tipo non ce lo aspettavamo così presto e così rapido», ammette Mario Deaglio. A che cosa lo si deve? «In parte alla situazione generale internazionale, in parte a condizioni italiane», è la riposta del Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino.
Cominciamo dalla situazione internazionale.
Possiamo dire che complessivamente non si vedono segni di miglioramento. Non si parla di accordi che possano fare la differenza, nemmeno su un tema che interessa tutti come il clima. In un quadro globale che complessivamente appare meno stabile di qualche anno fa, i Paesi più deboli, con maggior debito pubblico come il nostro, finiscono di nuovo sotto osservazione, anche perché sembrano muoversi senza una chiara direzione.
E qui arriviamo quindi alle condizioni interne…
Esatto. E il quadro per un osservatore esterno non appare del tutto favorevole. È vero che cresceremo molto e più di altri quest’anno, ma è altrettanto vero che il nostro Pil aveva perso molto e che, guardando alla situazione pre-Covid, alla fine del 2021 resteremo indietro rispetto ad altri Paesi. A ciò dobbiamo anche aggiungere il chiacchiericcio della politica che fa percepire una situazione che appare assolutamente poco chiara per il 2022.
Si riferisce alla corsa già iniziata per il Quirinale e alle conseguenti possibili elezioni anticipate?
Sì. Inoltre, l’attenzione del mondo politico appare orientata a elementi secondari, le dichiarazioni su quello che il Paese dovrebbe fare sono molto generiche e manca quindi un vero dibattito relativo alla visione che si ha per il futuro del Paese con le conseguenti azioni da intraprendere. È chiaro che tutto questo ha un peso rispetto alle decisioni che i soggetti finanziari devono prendere tutti i giorni su dove allocare o meno i propri investimenti.
Quanto pesano invece sul nostro spread le decisioni che le Banche centrali potrebbero prendere visto che il rialzo del differenziale è cominciato proprio nel giorno della riunione del board della Bce?
Ovviamente le Banche centrali devono tenere d’occhio l’inflazione e agire di conseguenza. Non passa tra l’altro inosservato il fatto che la ripresa a livello globale si è fermata perché le catene del valore sono improvvisamente collassate. Non si trovano più le materie prime e, come se non bastasse, i Paesi produttori di gas e petrolio non hanno ovviamente interesse a far scendere i loro prezzi.
C’è il timore quindi che le Banche centrali debbano alzare i tassi nei prossimi mesi?
Sì, ormai è difficile parlare di inflazione temporanea, anche perché stando alle dichiarazioni di qualche mese fa sarebbe già dovuta essere scomparsa. È molto probabile che per prima agisca la Fed. Chiaramente la Bce non potrà che seguire, anche se l’inflazione nell’Ue è più bassa che negli Stati Uniti. Quando avremo un livello in Europa stabilmente superiore al 4% di certo l’Eurotower qualcosa farà, anche se non necessariamente un rialzo dei tassi.
La riunione del board della Bce di dicembre è quindi molto importante, considerando che ci sarà anche la revisione delle previsioni macroeconomiche, inflazione compresa?
Assolutamente sì. Sembrano esserci molte cose decisive in troppo poco tempo, compresa la conferenza sul clima di Glasgow che probabilmente non raggiungerà risultati apprezzabili. In questo senso mi sembra non ci si accorga di un fatto molto importante: se Internet fosse un Paese, sarebbe il quarto al mondo per consumo di energia. Forse, quindi, oltre che guardare al livello delle emissioni di CO2 dovremmo anche riuscire a essere più efficienti dal punto di vista energetico per quel che riguarda Internet. Penso che prima o poi qualche Paese tra quelli sotto accusa come l’India lo farà notare.
L’incertezza sul futuro del Patto di stabilità influisce sul nostro spread?
È tutto il quadro europeo a non aiutarci in questo senso. Ci sono Paesi che contano poco dal punto di vista economico, come la Polonia o l’Ungheria, ma che alzano la voce. I Paesi dell’Est, se uscissero dall’Ue, finirebbero in un modo o nell’altro nell’orbita russa e questo spingerebbe il resto dell’Unione ad appiattirsi ancora di più sugli Stati Uniti. In Europa è necessario cercare compromessi a più livelli, dal Patto di stabilità allo stato di diritto, cercando di evitare accordi ristretti tra alcuni Paesi che amplificherebbero l’immagine di una fragilità dell’Unione che porterebbe inevitabilmente i Paesi più indebitati come il nostro a essere maggiormente attenzionati sui mercati.
Qual è livello sopra il quale lo spread deve davvero preoccuparci?
Rispondere a questa domanda non è affatto semplice. Direi che un primo campanello d’allarme è rappresentato dal raggiungimento della soglia dei 150 punti base per almeno una settimana continua. Un successivo alert è rappresentato dal range 160-170 punti base, superato il quale la situazione può davvero farsi seria. C’è da dire che difficilmente a quel punto i tedeschi starebbero solamente a guardare perché, viste le connessioni tra il loro e il nostro apparato industriale, non hanno alcun interesse a vederci affondare.
(Lorenzo Torrisi)
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