Dal World Economic Outlook e dal Fiscal Monitor diffusi negli ultimi giorni dal Fondo monetario internazionale l’Italia sembra, da un lato, subire un colpo sul fronte della crescita del Pil e, dall’altro, finire ancora una volta sotto i riflettori per via del suo elevato debito pubblico. Ma a sentire Marco Fortis, direttore della Fondazione Edison e docente di Economia industriale all’Università Cattolica di Milano, i giudizi dell’istituzione di Washington andrebbero quanto meno ridimensionati e letti in una diversa prospettiva.
Cominciamo dal dato sul Pil. Secondo il Fmi, quest’anno la crescita sarà solo dello 0,7%. Qual è il suo giudizio in merito?
Credo continui a pesare il qui pro quo della revisione sui conti economici nazionali per gli anni dal 2021 al 2023 operata dall’Istat il mese scorso. Siccome è stato aumentato il Pil degli anni precedenti, è fisiologico che la crescita di quello del 2024 rispetto a quello del 2023 risulti inferiore a prima. Detto questo, non mi sembra che le previsioni del Fmi negli ultimi anni siano state molto azzeccate. Non dimentichiamo che per il 2024 stima una crescita zero per la Germania quando il Governo di Berlino ritiene, invece, che sarà pari al -0,2%.
Cosa pensa, invece, dei richiami arrivati sul fronte della messa in sicurezza dei conti pubblici visto l’alto livello del nostro debito?
Siamo di fronte alla solita minestra che ci viene servita e che ci lascia sorvegliati speciali per via del nostro rapporto debito/Pil. Se prendiamo i dati Eurostat, tuttavia, possiamo notare che l’Italia è tra i pochi Paesi che, come ha riconosciuto Fitch, ha di fatto riportato questo parametro ai livelli pre-Covid. Tra il secondo trimestre del 2019 e il secondo trimestre del 2024, infatti, il debito/Pil italiano è cresciuto di due decimi di punto percentuali (dal 136,8% al 137%), nonostante gli effetti del Superbonus. Per quanto riguarda gli altri principali Paesi, l’aumento è stato di 1,8 punti percentuali in Germania, di 4,7 punti in Spagna, di 13 punti in Francia, di 17,1 punti negli Stati Uniti e di 18,4 punti nel Regno Unito.
Come si spiega questo risultato italiano rispetto a quello degli altri Paesi?
Si tratta di un risultato reso possibile dagli investimenti, non solo in edilizia ma anche in macchinari grazie a Industria 4.0, che hanno creato crescita. La Francia ha, invece, utilizzato i maggiori spazi fiscali per la spesa in welfare con l’obiettivo di tenere buoni i cittadini ed evitare manifestazioni e proteste sociali, mentre gli Stati Uniti hanno puntato tutto sul sostegno ai redditi per alimentare i consumi.
Il nostro debito pubblico su Pil nei prossimi due anni, però, salirà.
Sì, anche perché si continueranno a sentire gli effetti del Superbonus. Tuttavia, la principale causa dell’aumento del nostro debito pubblico nel tempo è rappresentato dalla mole di interessi che su di esso paghiamo immeritatamente e che perpetuano la crescita del debito stesso. Il vero nemico che dobbiamo combattere sono questi interessi, da una parte, convincendo i mercati, mediante un’adeguata comunicazione, che sono ingiustificati, dall’altra, mantenendo una politica come quella attuale sui conti pubblici.
Di quali cifre parliamo a proposito del peso degli interessi sul debito?
Considerando sempre i dati Eurostat relativi al periodo tra il secondo trimestre del 2019 e il secondo trimestre del 2024, il debito pubblico francese è aumentato di 850 miliardi di euro, quello tedesco di 546 miliardi, quello italiano di 505 miliardi e quello spagnolo di 383 miliardi. Nello stesso lasso temporale, gli interessi sul debito pagati dall’Italia sono stati pari a 352 miliardi, mentre per la Francia a 214 miliardi, per la Germania a 145 miliardi, per la Spagna a 152 miliardi. Di fatto l’Italia ha pagato per interessi quanto Francia e Germania messe insieme. Scomputando gli interessi, l’aumento del debito pubblico per la Francia è stato di 637 miliardi, per la Germania di 401 miliardi, per la Spagna di 231 miliardi, per l’Italia di 153 miliardi.
Alla fine, quindi, gli interessi rendono ancora più sfidanti gli sforzi da fare per contenere il debito pubblico.
In buona parte sì. Considerando le previsioni del Fmi, l’Italia registrerà un avanzo primario già l’anno prossimo, mentre la Germania nel 2026. Gli altri Paesi del G7, nell’orizzonte fino al 2029, resteranno in disavanzo primario. Considerando i dati positivi sui conti pubblici prima elencati, insieme al fatto che siamo il quarto Paese per export al mondo, che abbiamo una posizione patrimoniale sull’estero positiva, un tasso di disoccupazione più basso rispetto ad altri Paesi mediterranei, baltici e scandinavi, e addirittura, come riconosciuto da Standard & Poor’s, una ricchezza finanziaria netta delle famiglie pari a 2,1 volte il Pil, non si capisce come mai il nostro rating non venga alzato.
Di fatto, quindi, l’Italia è penalizzata dalle agenzie di rating.
Il nostro rating rimane ai livelli di quello della Bulgaria, con tutto il rispetto per questo Paese. Cosa deve fare di più l’Italia per meritare un giudizio migliore? Anche perché se guardiamo al rapporto debito/Pil non credo che gli Stati Uniti possano mantenere a lungo la doppia A. Certamente la situazione attuale spiega la forte domanda di Btp, che rappresentano un affare visto il rendimento che offrono e la solidità dei nostri fondamentali. Va da sé che se l’Italia pagasse meno interessi non solo avrebbe un debito pubblico più basso, ma potrebbe avere più risorse a disposizione per le Leggi di bilancio.
A questo proposito, in questi giorni si sta dibattendo non poco della nuova manovra. Lei cosa ne pensa?
Si può discutere sui tagli lineari e non selettivi alla spesa, ma intanto è stato messo un freno alle velleità di spesa populistiche che c’erano in campagna elettorale. Chiaramente si tratta di una manovra più di bilancio che non economica, anche perché le risorse sono poche. Si è preferito privilegiare la strutturalizzazione del taglio del cuneo fiscale e dell’accorpamento delle aliquote Irpef a favore dei redditi medio-bassi, andando in qualche modo nel solco dei provvedimenti adottati da Draghi in via provvisoria dopo il Covid. Se nel 2022 gli avessero detto che dopo due anni ci sarebbe stata una manovra del genere, probabilmente l’ex Presidente della Bce l’avrebbe sottoscritta.
(Lorenzo Torrisi)
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