Secondo l’ex ministro dell’Economia Tria, l’allarmismo economico sulla Cina sarebbe molto esagerato e “il Coronavirus più che pregiudicare la crescita la rallenterà, ma tutto si recupera. L’Italia farebbe meglio a non cercare alibi”. Per il presidente della Fed il Coronavirus invece “presenta nuovi rischi” per lo scenario globale e potrebbe creare sconvolgimenti (disruptions) per i mercati globali. Il coronavirus è la questione del giorno per tante ragioni che eccedono i temi sanitari; basti pensare che una settimana fa proprio quando il tema prendeva il sopravvento mediatico il Segretario del commercio americano Ross spiegava che il virus “potrebbe aiutare a riportare occupazione in America”. Significa che la pandemia di cui si parla non avrebbe effetti temporanei “che si recuperano”, ma duraturi e sostanzialmente concorrenti a quelli che si stanno manifestando con la nuova stagione dei dazi americani. Questa è un’interpretazione, anche abbastanza letterale, delle parole di Wilbur Ross, perché riportare lavoro in America significa spostare fabbriche e modificare decisioni di investimento miliardarie.



Ci sono due elementi che si sovrappongono. Tutti infatti cercano di capire cosa stia effettivamente succedendo in Cina dal punto di vista sanitario, quanti siano i contagiati e il tasso di mortalità. L’unica cosa certa è la schizofrenia apparente tra i numeri ufficiali e le misure che vengono poste in atto. La Cina non è particolarmente famosa per la trasparenza dei suoi numeri. Questo è un elemento. Il secondo elemento si sta manifestando con le chiusure di fabbriche in Europa, negli Stati Uniti o in Asia perché le aziende cinesi sono ferme e mancano i componenti. L’altro giorno, per esempio, l’ad di Fiat Chrysler, Manley, dichiarava che il coronavirus rischia di fermare una fabbrica europea. Poi c’è il problema forse passeggero di milioni di consumatori cinesi che hanno “improvvisamente” smesso di “consumare”. Il problema duraturo però è il primo. E su questo si stanno esercitando molti diplomatici, strategisti, ecc.



La questione è che la catena dei fornitori (la supply chain) globale rischia di essere pesantemente ripensata. Oggi abbiamo supply chain molto lunghe e concentrate in alcuni Paesi che assumono che lo scenario geopolitico sia stabile e che il libero commercio non incontri resistenze. Nessuno si è mai posto il problema che un certo componente prodotto in Cina, per esempio, possa “sparire” dalla catena o incontrare resistenze. Invece, i rischi negli ultimi anni si stanno sommando e stanno già adesso influenzando le decisioni di investimento delle multinazionali che devono riprogrammare la produzione tenendo conto dei nuovi rischi e dei nuovi “assetti geopolitici” o più banalmente delle nuove politiche commerciali americane.



Si tratta di cambiare in grande profondità uno schema che era in piedi da almeno tre decenni. Un’azienda che non può più vendere niente perché una fabbrica in Cina chiude o perché su quel prodotto i dazi hanno fatto per tre, tendenzialmente ridurrà le dimensioni di quella fabbrica e ne aprirà un’altra in un altro Paese, tendenzialmente più vicino sia geograficamente che politicamente. Se la politica americana non cambia, se il conflitto con la Cina rimane, siamo in presenza, ovviamente, di un cambiamento duraturo.

L’Italia dovrebbe chiedersi come mai prima degli altri abbia un Pil negativo già nel quarto trimestre e perché a far scendere il Pil sia stata la domanda interna. Minacciare tasse su qualsiasi cosa, prendersela con le “partite Iva”, dare un giro alla burocrazia “contro la corruzione” e parlare un giorno sì e l’altro pure di patrimoniali o revisioni del catasto per non parlare dell’abolizione della prescrizione fanno passare la voglia di consumare anche a quelli che se lo potrebbero permettere e fanno passare del tutto le residue velleità imprenditoriali degli italiani già severamente colpite da un restringimento del credito che non ha uguali nel mondo. Va bene l’austerity, ma questa è economia sovietica.

L’Europa continua il grande sogno di un mercantilismo perenne spinto oltre qualsiasi legge di gravità; quello che persino in questa fase permette alla Germania di macinare surplus commerciali che sono lunari per chiunque abbia un minimo di buona fede. Invece bisognerebbe prendere molto seriamente questi cambiamenti, perché nel nuovo quadro delle “supply chain” sconvolte fare l’esportatore presenta sfide notevoli, soprattutto senza peso geopolitico, con la domanda interna devastata e con divisioni interne colossali. O l’Europa si rassegna a diventare un campo di lavoro tedesco oppure cambia profondamente oppure si spezza. Sul cambiare profondamente siamo scettici perché nella realtà dei fatti si continua a pensare come se non stesse cambiando niente. Invece sembra che stia cambiando tutto.

Questo vale ovviamente anche per l’Italia con la sua economia piagata da un decennio di austerity e in cui si continua a dare per scontato che nonostante tutto continuino a esserci imprese e fabbriche di multinazionali contro un’evidenza che racconta tutta un’altra storia e in cui le “tasse” sono solo una parte, neanche preponderante, del problema. In Italia si dovrebbe capire cosa sta succedendo e poi chiedersi che tipo di “rifugio” possa essere questa Europa, quella che c’è nella realtà.

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