Questa settimana, il 3 e il 4 maggio, si riunisce la massima autorità di politica monetaria americana: il Federal Reserve Board. Tranne che negli ambienti specializzati (banche, finanza) c’è poca attenzione sull’impatto che le sue decisioni avranno sul resto del mondo, e in particolare su Paesi il debito della cui Pubblica amministrazione è particolarmente elevato. Tra questi c’è l’Italia.
Gli Usa sono alle prese con una vera vampata d’inflazione: in marzo, l’indice dei prezzi al consumo ha segnato un tasso annuo di aumento dell’8,5%, solo in parte imputabile a stimoli fiscali troppo forti, ossia a eccesso di spesa pubblica finanziata in disavanzo. È in gran misura causato dall’aggressione da parte della Federazione Russa all’Ucraina e dal fatto che gli Stati Uniti (ritrovando il senso di leadership di un passato non troppo remoto) sono il Paese che più sta facendo (con aiuti diretti a Kiev e anche con il supporto a Paesi dell’Unione europea, che ora pagano lo scotto di politiche energetiche poco sensate) per finanziare il sostegno a chi è stato aggredito.
Ciò ha innescato una fiammata inflazionistica, documentata non solo dall’aumento dell’indice del costo della vita “core inflation” (ossia dall’indice depurato dai prezzi dei beni alimentari and agricoli), che ha toccato il tasso annuo del 6,5% (nell’eurozona è al 3%). Inoltre, anche a ragione di una politica espansionistica di finanza pubblica, il tasso di disoccupazione Usa è al 3,6% (quello che si aveva in Italia negli anni migliori, 1962-64, del “miracolo economico”), la metà di quello dell’Ue. Senza dubbio, ciò ha effetti sui salari e sui tenori di vita, ma anche sulle aspettative inflazionistiche, come si constata dagli ultimi rinnovi di contratti collettivi di lavoro,
Dall’inizio dell’anno, il Federal Reserve Board sta cercando di attuare un soft landing (atterraggio morbido), analogo a quelli effettuati nel 1964, nel 1984 e nel 1993, per evitare misure draconiane come quelle adottate alla fine degli anni Settanta che portarono gli Stati Uniti, e gran parte dei Paesi Ocse, in recessione. Ma la riunione del 3-4 maggio potrebbe essere quella della svolta. Non solo si ritoccherebbero all’insù i tassi direttori di interesse (in particolare l’interbancario), ma si modificherebbero le misure monetarie “non convenzionali”, passando dal Quantitave easing (che ha caratterizzato la politica monetaria americana dal 2010 (e quella europea dal 2012) a quello che si può chiamate il Quantitative Tightening, ossia misure “non convenzionali” per restringere gradualmente l’offerta di moneta di fronte all’ inflazione.
Ne abbiamo già accennato su questa testata. La modalità è semplice: non rinnovare i titoli di stato che giungono a maturity e quelli per mutui edilizi (garantiti dallo Stato) alla scadenza e non investirne eventuali ricavi (in gergo no roll off). Il Federal Reserve Board conta di porre un massimale di 95 miliardi di dollari al mese per il roll off (60 miliardi di obbligazioni del Tesoro e 35 miliardi di mutui immobiliari). In un anno si potrebbe sterilizzare più di un trilione di dollari finiti nelle casse delle autorità monetarie americane, un forte aggiustamento per il mercato dopo anni di impegno per tenere i tassi di interesse a breve prossimi allo zero e far sparire in effetti la differenza tra tassi a breve e tassi a lungo termine.
Nel mercato finanziario americano, gli effetti non saranno necessariamente una recessione, come quella che si verificò a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta quando l’allora Presidente del Federal Reserve Board, Paul Volcker, attuò politiche draconiane che crearono una recessione in America e una crisi debitoria nei Paesi in via di sviluppo. Tutti ricordano la recessione che colpì anche l’Europa. Pochi, invece, rammentano o citano il Rapporto Craxi, il documento redatto dall’ex presidente del Consiglio italiano nella veste di Rappresentante speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per affrontare il problema del debito, documento approvato all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1990, a cui collaborarono grandi esperti italiani (tra cui anche Mario Draghi) e stranieri. Il Rapporto (che oggi pare volutamente ignorato) tracciò le basi per affrontare e risolvere i nodi del debito tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo.
Nel libro recente The Meddlers. Sovereign Empires and the Birth of Gobal Economic Governance, Jaime Martin, un giovane professore di storia economica della Georgetown University cita un esempio ancora più calzante: la recessione del 1920-21, innescata dalla politica monetaria americana messa in atto per contrastare un’inflazione in cui, come in quella attuale, l’interruzione delle consuete catene dell’offerta (soprattutto per i prodotti energetici e gli alimentari), l’aumento quindi dei prezzi di generi che toccato direttamente il portafoglio, la difficoltà dei salari e degli stipendi a tenere il passo con l’aumento del costo della vita, e i conseguenti problemi sociali (con scioperi ed anche dimostrazioni violente) fecero in molti Paesi da anticamera a regimi autoritari. Oggi, il Fondo monetario internazionale stima che il 60% dei Paesi in via di sviluppo si sta pericolosamente avvicinando all’insolvenza.
E l’Italia? Non è in questa situazione, ma con un debito della Pubblica amministrazione che si aggira sul 150% del Pil avrebbe difficoltà con un aumento dei tassi e con Quantitative Tightening, ove lo applicasse anche la Banca centrale europea. Lo si legge, tra le righe, del Financial Stability Report, diramato dalla Banca d’Italia il 29 aprile.
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