Ursula von der Leyen ha già annunciato una svolta importante per il futuro dell’Ue, con un piano di abbattimento delle emissioni inquinanti. La rotta green della nuova Commissione è stata ribadita dalla sua presidente anche in un’intervista a Repubblica. “Prima o poi tutto il mondo si dovrà allineare alla filosofia del Green deal. E allora noi dovremo farci trovare nel ruolo di pionieri, con un vantaggio competitivo sugli altri. Dovremo essere noi a imporci sul mercato mondiale, non a subirlo come troppe volte è successo in passato”, ha detto von der Leyen. Un obiettivo non facile da raggiungere, considerando anche il momento non roseo che vive l’Unione, dove continuano ad accrescere i loro consensi i cosiddetti partiti populisti. Ne abbiamo parlato con Massimo D’Antoni, professore di scienza delle finanze all’Università di Siena.
In un articolo pubblicato sul Financial Times, Wolfgang Münchau ha evidenziato che è l’austerità, non i populisti, il vero elemento distruttore dell’Europa. Condivide?
Münchau è un commentatore attento dei fatti economici e politici europei, che non ha mai risparmiato critiche al modo di condurre la politica economica nella Ue. Credo che abbia ragione nel dire che le politiche di austerità messe in atto in questi anni in Paesi come la Germania, l’Italia, la Francia e il Regno Unito siano una delle principali ragioni dei risultati così deludenti delle forze moderate di centrodestra e centrosinistra, cioè quelle che più hanno scommesso sul progetto di integrazione europea. D’altra parte, non credo che sia corretto vedere austerità e populismo come due spiegazioni alternative. Molti studi di politologi, sociologi ed economisti hanno evidenziato come l’affermarsi di forze populiste, cioè forze che, contrapponendo gli interessi del “popolo” a quelli delle élite, mettono in discussione l’ordinamento liberale, abbia avuto tra le proprie cause prossime proprio le politiche di austerità.
Vedendo gli ultimi eventi (il Consiglio europeo di dicembre, il dibattito sul Mes) e le ultime dichiarazioni dei commissari, ci possiamo aspettare dei cambiamenti dall’Europa con la nuova Commissione?
Ormai da tempo sono molto disilluso sul fatto che l’Europa possa trovare le risorse politiche per realizzare i cambiamenti necessari. L’interesse di una parte consistente dei Paesi europei e dell’euroburocrazia è quello di mantenere lo status quo. Ci saranno magari dei cambiamenti marginali, che comprensibilmente i governi cercheranno di vendere all’opinione pubblica come grandi successi. Ma questi cambiamenti non saranno tali da modificare la dinamica interna dell’Unione, dominata dalla ricerca della competitività attraverso la pressione sui salari, la riduzione del welfare e l’arretramento dei diritti sociali. Proprio in questi giorni si è dimesso il ministro Fioramonti, in polemica con la scelta di non aumentare il finanziamento al nostro sistema scolastico e universitario, ma la verità è che un aumento di tale finanziamento non è mai stato sul tavolo di questo Governo, vista la necessità di allinearsi con le regole fiscali dell’Unione.
A questo proposito, l’Italia è già stata avvisata da Bruxelles circa il livello del debito pubblico ancora elevato: secondo lei si riaprirà una “trattativa” che ci porterà a una correzione dei conti pubblici anche nel 2020 come avvenuto nel 2019?
Anche se ci sono i segni di una maggiore – chiamiamola così – benevolenza verso l’attuale Governo, non mi stupirebbe una richiesta di correzione. Il nostro Paese resta sempre un osservato speciale, politicamente debole. Le trattative ci consentono, quando va bene, di evitare di stringere ulteriormente la cinghia, ma non c’è spazio per correggere la condizione di sotto-finanziamento strutturale di settori strategici come la scuola, e la ricerca, per non parlare degli investimenti in infrastrutture e di settori comunque cruciali come la sanità. A queste condizioni, non si capisce da dove dovrebbe arrivare per noi un’inversione di tendenza.
Si parla di una crisi imminente che potrebbe arrivare nel 2020: l’Europa ha gli strumenti per farvi fronte?
Anche senza crisi, l’economia dell’intera Europa si distingue per la crescita particolarmente modesta. Se poi dovesse manifestarsi una vera e propria recessione, o dovesse esserci un’altra crisi finanziaria, sarebbe un problema serio. Il sistema produttivo e quello bancario sono in sofferenza da anni, la politica monetaria è stata utilizzata al massimo grado, senza peraltro ottenere i risultati sperati. Bisognerebbe ricorrere in modo più coraggioso alla politica fiscale, ma questo richiederebbe un vero e proprio cambio di paradigma della politica economica. Inoltre, se l’azione di contrasto alla crisi fosse lasciata ai singoli Stati sarebbe un problema per Paesi come il nostro, che ha minore spazio di manovra per la dimensione del debito pubblico.
Brexit, elezioni presidenziali Usa, possibile nuovo rallentamento dell’economia cinese, definizione del nuovo bilancio Ue: a cosa dobbiamo guardare con più preoccupazione nel 2020?
Anche per cavarmi d’impiccio da una domanda che richiederebbe un indovino più che un economista, direi: tutte queste cose insieme e forse nessuna in particolare. Ma che si ponga la domanda in questi termini mi pare significativo. È vero che l’economia mondiale è molto integrata, ma un mercato ricco come quello europeo dovrebbe trovare in se stesso le risorse per ripartire, senza essere così dipendente da quanto accade nei mercati mondiali. È anche questo l’effetto dell’orientamento mercantilista che ha informato le politiche europee, un orientamento che scommette sulla competitività dell’export più che sul rilancio della domanda interna.
(Lorenzo Torrisi)