L’ultima follia della settimana è Donald Trump che, sotto pressione per la vicenda riguardante la sua telefonata al Presidente ucraino per danneggiare il possibile candidato democratico Joe Biden, si rivolge a Xi Jinping per ottenere aiuto contro il rivale. Una scena inverosimile, per giunta alla vigilia della ripresa dei colloqui sui dazi con Pechino. È lecito sospettare, a questo punto, che la prudenza ostentata da Washington di fronte alle violenze illustrate dalle tv a Hong Kong sia qualcosa di più rispetto alla real politik.
Anche così s’inquadra un momento finanziario confuso, dov’è difficile individuare un fil rouge che aiuti a capire mercati finanziari confusi, privi di una bussola utile a digerire le tante novità. Come spiegare, ad esempio, l’offensiva dei banchieri del Nord Europa contro Mario Draghi a poche settimane dalla sua uscita di scena? La dinamica dell’Eurozona in piena crisi impone interventi drastici come conferma l’andamento dei tassi: in agosto i prezzi alla produzione sono scesi più del previsto e l’aspettativa sull’inflazione a cinque anni ha toccato i minimi della storia a 1,13%, 13 punti base meno del valore precedente l’annuncio delle misure di contrasto della deflazione della Bce di metà settembre.
Di fronte a questi numeri insorgono italiani e spagnoli. “La Banca centrale europea – ha ammonito ieri il governatore Ignazio Visco – non può rischiare di perdere il controllo delle aspettative di inflazione in un contesto economico in deterioramento”. Specie “in un contesto di debiti alti sia pubblici sia privati”. Ma siamo convinti, replicano i banchieri a Nord del Reno, che la terapia funzioni? In questi anni i mercati sono stati inondati di capitali che hanno provocato non pochi guai (gli scandali in Germania, la sopravvivenza di aziende zombie) senza favorire la circolazione dei capitali in maniera efficiente. Ci vorrebbe un mercato unico, ma, obietta il Ceo di Allianz, in questo modo non faremmo altro che consentire “alla gente di spendere i capitali che non ha”. Ovvero aprire i cordoni della borsa a vantaggio di banchieri alla Mario Draghi “che non sono indipendenti”. Un’accusa grave, che dimostra come in questi anni, sotto l’incalzare della crisi, si siano allargate le distanze nell’Eurozona, così com’è avvenuto tra Europa e America.
E non è certo il Quantitative easing la chiave per spiegare la crisi del modello tedesco che inanella ritardi e rovesci a catena. Buona parte dei problemi derivano dalla crisi strutturale dell’auto, ma anche dalle difficoltà dei migliori clienti, Cina in testa. Più in generale è andato in crisi un modello basato sull’export. La crescita dei consumi interni, grazie all’aumento di salari e pensioni, non è sufficiente nel tempo a garantire la continuità di una leadership messa a rischio dai mancati investimenti in infrastrutture, rinviati o negati per difendere il dogma del debito pubblico zero. Forse, suggeriscono gli economisti, sarebbe il caso di rompere il salvadanaio per evitare una congiuntura che minaccia di protrarsi nel tempo. Ma la Germania esita. Anzi, Cdu-Csu e socialisti sono contrari a prendersi la responsabilità di violare il principio.
Di qui lo scontro che tra meno di un mese opporrà le colombe della Bce, indebolite dall’addio di Draghi, e i falchi. E la posta in gioco sarà ancora una volta la sopravvivenza dell’euro, messa a rischio dai cannoni d’oltre Reno, ben più pericoloso dei mini-Bot di Claudio Borghi.
Questo il quadro della polveriera globale che potrebbe esplodere con la scintilla della Brexit. O restare così com’è in attesa di scenari più comprensibili. Nel frattempo i capitali guardano all’oro, favorito dai tassi molto bassi, o si rifugiano in titoli pubblici a rendimenti vicini o sotto lo zero. Una situazione di stallo che, insegna il Giappone, può durare per decenni. Ma non è detto.