Si dice che un vero leader si riconosca anche dalla capacità di innovare il linguaggio. Mario Draghi lo ha fatto in modo spiazzante, riportando a galla due termini antichi e quasi dimenticati – buono e cattivo – recuperando alla politica il senso per l’etica collettiva e la morale privata.
Il debito, dunque, ha detto l’ex Presidente della Bce, può essere buono o cattivo a seconda di come viene usato. In tempi di smarrimento come quelli che stiamo vivendo il ripristino di categorie essenziali e facili da riconoscere, perché presenti nell’esperienza di tutti, ha la forza di una rivoluzione.
Non ha bisogno di riferirsi a teorie complicate, a sofismi o a teoremi distillati per pochi. Non deve neanche affidarsi a una compiaciuta verbosità per attirare l’attenzione del pubblico a strappare l’applauso. L’italiano più influente del mondo può permettersi il lusso di essere semplice.
E per questo efficace alla massima potenza. Tutti possono comprendere che il debito, i soldi presi in prestito dagli italiani o dall’Europa, è buono se utilizzato per creare ricchezza e cattivo se disperso in mille rivoli assistenziali. Il primo può essere ripagato e ci mette al riparo da fallimenti, il secondo no.
Dal palco del Meeting di Rimini, che per nostra fortuna si sta tenendo nonostante le minacce del Covid, arriva una lezione potente e disarmante: la verità non ha bisogno di fronzoli per essere rivelata. Pane al pane e vino al vino. Perché non ci siano fraintendimenti e scappatoie.
Con questa verità dobbiamo adesso, volenti o nolenti, fare i conti. Ogni scelta, ciascuna azione del Governo (e non solo, naturalmente) dovrà essere valutata secondo il criterio del buono-cattivo nel senso che abbiamo indicato: uso virtuoso e produttivo delle risorse affidate o loro sperpero.
Diversa la prospettiva temporale. Nel primo caso occorre avere la vista lunga, guardare avanti in modo da non doversi pentire domani delle decisioni prese oggi. Nel secondo, la vista è decisamente corta: si ha l’illusione di risolvere un problema nell’immediato senza rendersi conto dei guasti per il futuro.
Non sfugge a nessuno che le pratiche a breve, rivolte a soddisfare una domanda di sussidio qui e ora, sono molto più popolari di quelle che richiedono impegno e sacrificio. Ma, per restare su concetti chiari, non è pensabile fondare una società sul presupposto che sia possibile raccogliere senza seminare.
Certo, le urgenze vanno affrontate nei tempi e nei modi che le circostanze impongono. Ma senza che questo comprometta il futuro. Perché il futuro, anche per chi si ostina a ignorarlo, inesorabilmente arriva e chiede il conto. E le pretese vittorie del momento si trasformano in sconfitte.
Che l’Italia sia capace di lungimiranza lo abbiamo dimostrato negli anni bui del Dopoguerra accesi da squarci luminosi di speranza che alla fine hanno preso il sopravvento. Se siamo diventati uno dei Paesi più ricchi del mondo, la seconda manifattura d’Europa, lo dobbiamo alle intuizioni dell’epoca.
Se l’ambizione più grande degli uomini (e delle donne) è passare alla storia, essere ricordati per i comportamenti e i risultati tenuti in vita, fortunata è questa generazione di decisori perché siamo a un bivio cruciale della nostra esistenza e possiamo determinare quella dei nostri figli e nipoti.