Anche la Bce ha abbandonato la difesa dei tassi zero, avvicinandosi alla politica della Federal Reserve e della Bank of England. Ora gli operatori si attendono tanti mini-rialzi (fino a cinque, entro dicembre) per fronteggiare l’inflazione, il genio uscito dalla lampada. E così viene meno il principio di fare “whatever it takes” per contenere il costo del denaro a qualsiasi costo. E viene meno un altro principio della dottrina Draghi: la distinzione tra debito buono, al servizio degli investimenti, e quello cattivo, al servizio della spesa corrente: oltre certi limiti il debito è debito e basta. 



È quanto tornano a ripetere i partners Ue, infastiditi dalle proposte che piovono dal Bel Paese, per sterilizzare in qualche maniera l’esposizione finanziaria legata alla pandemia. Certo, nessuno si illude che si possa tornare ai rigori del Fiscal Compact, ma da questo a dimenticarsi i propri vincoli ce ne corre. E, come ricorda l’ex membro della Bce Lorenzo Bini Smaghi, non è il caso di invocare nuove deroghe o nuove licenze per affrontare le emergenze: oltre al piano Pnrr, gli statuti europei offrono già oggi più occasioni per investire senza infrangere le regole, purché giustificabili. Senza dimenticare che nel 2022 la Bce acquisterà titoli italiani per 60 miliardi, assorbendo più del 90% dell’offerta. Fino a quando lo farà? 



Rischia così di riaprirsi il vecchio contenzioso con i falchi del Nord, che sembrava superato con l’arrivo di Draghi a palazzo Chigi. Molti segnali, del resto, stanno a indicare che il Governo dell’ex Presidente della Bce ha perso parte in questi mesi del suo appeal verso i partners di Bruxelles. Colpa di una Finanziaria soft, sensibile ai richiami dei partiti piuttosto che dell’occasione di sfruttare i tassi bassi per lanciare segnali ai mercati. Con il risultato che oggi lo spread verso i titoli tedeschi veleggia attorno ai 150 punti, più o meno il doppio della Spagna che non ha preso soldi a prestito per il piano Pnrr. Si è andati avanti con la solita manfrina degli “sconticini” sul fisco combinati con le regalie ai partiti. Una brutta abitudine, assai più indigesta stavolta perché compiuta con l’avallo di Draghi, che ha accettato lo stop al risanamento in attesa della corsa al Quirinale. E così oggi si riparte in un clima assai più “freddo” per affrontare una strada in salita, con tante buche da evitare. Per dirne qualcuna:



– L’emergenza energetica, che sta mettendo in difficoltà le aziende e i bilanci delle famiglie. Ma non emerge, per ora, alcuna indicazione su quel che il Governo intende fare nel medio termine a proposito delle rinnovabili o delle riserve di gas che si possono sfruttare a breve.

– Le varie emergenze settoriali, a partire dall’auto. L’Italia è l’unico tra i produttori che non ha attualmente in opera alcun incentivo per l’auto elettrica. E nel frattempo, a differenza dei concorrenti, non ha messo a disposizione risorse per attrarre investimenti nelle batterie. 

– I ritardi strutturali, particolarmente pericolosi a fronte dell’inflazione attuale. Non siamo di fronte a un aumento dei prezzi tipo anni Settanta, provocato da una domanda troppo modesta per far fronte all’impennata dell’offerta. Causa i problemi della logistica e i guasti della pandemia, siamo di fronte a un’inflazione da costi. Ma per affrontare con successo l’inflazione da domanda basta alzare i tassi. L’inflazione da costi, invece, impone di rimuovere, oltre ai blocchi dei porti, ostacoli strutturali ben più ostici: il nodo della giustizia, la riforma del fisco e quella, più volte promessa, della concorrenza. Non è un bel segnale per Draghi il richiamo di Bruxelles per aver rinviare le regole antitrust sulle spiagge. Se neppure lui è in grado di vincer la guerra dell’ombrellone, hanno pensato all’Ue, che speranze avrà mai l’Italia?

Ne ha ancora tante purché, finita la guerra del Quirinale, Draghi dimostrerà di essere in grado di ripartire con il piglio iniziale. È importante che, senza indugi, arrivino segnali sulla riforma del catasto così come le leggi delega sulla riforma del codice degli appalti e quella sulla concorrenza. Per carità, è un’impresa titanica anche perché dovrà per forza accompagnarsi al rispetto delle condizioni da rispettare per avere diritto ai Fondi Ue, nonché ai provvedimenti annunciati per la lotta all’evasione fiscale, la definizione di tetti di spesa per il triennio 2023-2025 (entrambe entro giugno) e il nuovo regolamento relativo alle concessioni portuali (fine anno). E ci sono 13 condizioni che riguardano l’aggiudicazione di appalti per la realizzazione di altrettanti grandi investimenti pubblici. Il tutto, per giunta, in un clima da campagna elettorale.

Certo, per consolarci possiamo prender atto della ripresa del Pil, mai così forte dal 1976, ma non dimentichiamo che il “miracolo” è figlio del superbonus, misura straordinaria che dipende dal rispetto delle regole del Pnrr. Così come va affrontata la partita dell’energia, che non è solo quella delle bollette, che non può essere affrontata con una manovra ulteriore, ma richiede anche scelte a medio termine che non saranno indolori e perciò richiedono senso di responsabilità e gioco di squadra, qualità spesso snobbate da una classe (ben poco) dirigente. 

Il risultato? Siamo l’unico Paese dell’Ue in cui i lavoratori guadagnano meno di trent’anni fa. Il salario medio è diminuito (del 2,9%) invece di aumentare. In Germania e Francia, nello stesso periodo, gli stipendi sono aumentati rispettivamente del 33,7% e del 31,1%. È questo il costo delle mancate riforme che schiacciano la produttività di un Paese che si ostina a voler esser povero e senza quella dignità invocata dal Presidente Mattarella. 

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