Mario Draghi, giunto ormai alla fine del suo mandato, ha lanciato due sfide parallele che vanno al cuore della crisi europea. La prima riguarda i governi ai quali dice investite di più e meglio, la seconda le banche invitandole a ristrutturarsi e cambiare il modello di business. Non c’è da stupirsi che la reazione sia così forte e, talvolta, persino scomposta. L’ultima riunione della Bce ha mostrato una spaccatura profonda. Il nuovo ciclo di acquisto di titoli, il Qe2, stando alle ricostruzioni di numerosi organi di stampa, tra i governatori di banche centrali avrebbe trovato il dissenso non solo del tedesco Jens Weidmann, dell’olandese Klaas Knot, dell’austriaco Robert Holzmann e dell’estone Madis Müller (insomma dei falchi), ma anche del francese François Villeroy de Galhau. A essi si sono aggiunti due importanti membri del direttorio, la tedesca Sabine Lautenschäger e il francese Benoît Coeuré che in questi anni aveva sempre sostenuto Draghi. Comprare ancora titoli è apparso sproporzionato e inefficace. Dopo i maxi-acquisti da 2.600 miliardi non c’è rimasto più molto, anche perché la Bce si è autoimposta per ora un tetto al 33% per singolo emittente e singola emissione. Ma la polemica si estende anche alle altre misure espansive varate dalla Banca centrale europea.
I tassi d’interesse negativi non piacciono a molti banchieri perché schiacciano i margini tra interessi attivi e passivi e di questa critica si è fatta interprete la Deutsche Bank. Quanto alla nuova ondata illimitata di liquidità, è stata accolta con favore dalle borse, tuttavia oggi non manca tanto la liquidità, dopo tutta la moneta stampata dalla banca centrale, quanto piuttosto il suo impiego redditizio e di lungo periodo. In altri termini, il problema non è la moneta, ma come dove investirla. Questo è un punto chiave che riguarda tutti gli operatori economici, a cominciare dalle banche per arrivare ai governi.
Il dibattito, dunque, deve essere impostato su basi diverse, spostandolo dalla domanda all’offerta, dalle politiche congiunturali a quelle strutturali. Non che le prime non siano importanti, ma sono solo una parte del dilemma. L’invito a spendere di più è rivolto soprattutto ai paesi che se lo possono permettere, come la Germania, tuttavia anche nel caso tedesco, la questione non è solo quanto spendere, ma come e dove. Non sta a Draghi dirlo, in ogni caso, quando ha parlato di riforme strutturali pensava all’Italia, che ne ha bisogno più di altri, alla Francia dove molte misure prese dal governo sono state bloccate da proteste nettamente controriformiste, e alla stessa Germania.
Se vista in profondità, infatti, la crisi tedesca non dipende solo dai dazi di Trump, né da un governo attaccato come una cozza al mito del bilancio pubblico in pareggio, ma dalla difficoltà di affrontare tre cambiamenti di fondo: la ristrutturazione delle banche (e la reazione della Deutsche Bank a Draghi è un sintomo di debolezza del sistema creditizio); la rivoluzione ambientale con l’abbandono del nucleare e del carbone; la riconversione dell’industria automobilistica perché il punto di forza dell’economia tedesca si sta trasformando in una delle sue debolezze. Scossa dal dieselgate, das Auto (per citare un’infelice e nazionalistica pubblicità) si scopre in forte ritardo rispetto ai grandi concorrenti asiatici che sono andati molto più avanti nelle tecnologie ibride o nel tutto elettrico che rappresenta la nuova frontiera dell’auto. Secondo i calcoli degli esperti, bisognerebbe investire subito 100 miliardi di euro per non perdere il passo (30 miliardi la sola Volkswagen). Tesla, che pure continua a non fare profitti, ha un vantaggio tecnologico di almeno tre anni, mentre i giganti del web come Google stanno spendendo una montagna di quattrini sulle vetture senza conducente e i sistemi di guida digitali. Ciò chiama in causa non solo il capitale privato, ma anche quello pubblico, soprattutto in Europa.
Prendiamo proprio l’auto elettrica: per diventare una scelta di massa c’è bisogno di una rete di colonnine per la ricarica che oggi non esiste in misura sufficiente. E di un’adeguata fornitura di energia proprio mentre occorre ridurre la dipendenza dagli idrocarburi, sapendo che oggi come oggi l’unica alternativa concreta al nucleare e al carbone viene dal gas. E così via. Senza trascurare ovviamente l’impatto sociale di questo percorso in termini di lavoro, salari, istruzione, ricerca.
Il cambiamento è profondo, costoso, ad alto rischio. Le imprese private non possono sottrarsi, pena la loro stessa esistenza, ma è l’intero sistema economico a dover sostenere la grande transizione. La critica alla politica monetaria e ai suoi limiti ci ha portato lontano, però il messaggio che viene dall’ultimo passo di Draghi “in terra incognita”, è proprio questo: io ho fatto di tutto e di più per salvare il salvabile, ma a cambiare un paradigma che non regge ci dovete pensare voi, cioè le banche, le imprese, i governi, tutti i soggetti dell’economia, tutti coloro che debbono essere protagonisti di un nuovo modello di sviluppo.