La Nato è in stato di “morte cerebrale”. È la diagnosi/sentenza di Emmanuel Macron, che denuncia la crisi dell’Alleanza Atlantica certificata dalla mancanza di coordinamento tra Europa e Stati Uniti, com’è emerso chiaramente in occasione dell’intervento militare della Turchia – membro chiave dell’Alleanza – in Siria. “Stiamo vivendo la morte cerebrale della Nato, non c’è alcun coordinamento del processo decisionale strategico tra gli Stati Uniti e i suoi alleati. Nessuno”, sentenzia il Presidente francese sollevando così il tema degli obiettivi comuni cui deve tendere il dibattito dell’Europa oltre l’orizzonte dei vincoli di bilancio. Lo stesso Macron, nei giorni precedenti, aveva nel mirino quei vincoli di bilancio, ormai anacronistici e limitati di fronte alla situazione attuale: “Bisogna escludere gli investimenti in ricerca e sviluppi dai limiti previsti dal trattato di Maastricht”, è il suo messaggio. Altrimenti l’Europa rischia di accumulare un ritardo incolmabile nelle tecnologie che faranno la differenza nel futuro.



Il dinamismo di Macron si spiega alla luce del vuoto di leadership della Germania posta di fronte alla crisi del modello economico basato solo sull’export e frenato dal rifiuto ad assumersi le responsabilità geopolitiche che i suoi primati economici (e i vantaggi legati all’euro) imporrebbero. Anche di fronte agli affondi di Parigi frau Merkel si è limitata a predicare cautela. “Macron ha usato parole drastiche, non è l’idea che ho io della cooperazione nell’Alleanza”. “Anche se abbiamo dei problemi, non penso che una valutazione così radicale sia necessaria”, ha detto ancora la cancelliera. Insomma, non è il caso di alzare il tiro in un momento così delicato per l’export tedesco, che teme il possibile arrivo di dazi Usa sull’auto. Ma anche in Germania affiorano preoccupazioni e obiettivi che vanno al di là del mero interesse a breve.



Anche in questo senso va letta l’apertura del ministro delle Finanze, il socialista Olaf Scholz, al completamento dell’Unione Bancaria europea, finora osteggiata per il rifiuto a una garanzia sui depositi comune. L’Europa, è il senso della proposta per ora avanzata solo dal capo delegazione socialista e non dal governo, ha bisogno di banche più grandi a livello continentale se vuole mettersi in grado di competere in futuro con Cina e Stati Uniti.

Due esempi per sottolineare che mentre l’Italia, impotente ad affrontare problemi grandi (dall’Ilva all’Alitalia) si disperde in dispute un po’ inverosimili (dai seggiolini alle carte di credito alla chiusura domenicale), il resto del mondo, Europa compresa, non aspetta. Tra difficoltà ed errori, in particolare l’Ue cerca una strada da percorrere a fronte della Brexit, probabilmente meno dannosa di quanto temuto, e dell’isolazionismo a stelle e strisce della stagione di Donald Trump. Una strada che impone scelte politiche, militari ed economiche che richiedono, al di là delle convenienze elettorali del momento, un terreno comune di confronto all’interno degli Stati sufficiente a garantire la necessaria fiducia ai vari soggetti dell’economia.



L’assenza di questo prerequisito necessario seppur non sufficiente è una delle cause dell’uscita dall’Italia dei centri direzionali delle imprese, il cervello dell’economia che tende a sfuggire da un Paese ormai inaffidabile, volubile e smarrito, deluso dall’esperimento fallimentare dei Cinque Stelle, ma che continua a illudersi che la colpa sia degli “altri”: immigrati, Unione europea, gli indiani dell’Ilva oggi, i tedeschi di Lufthansa di domani in Alitalia. In attesa di una svolta (francese?) in Unicredit. E senza dimenticare, ovviamente, le conseguenze del passaggio della maggioranza di Fca nelle mani di Psa. O le prospettive future della meravigliosa avventura di Leonardo Del Vecchio, creatore di un impero industriale e finanziario che guarda al mondo, ben oltre i confini italiani.

La fuga dei capitani d’impresa, così come dei cervelli, è qualcosa che va al di là di provvedimenti fiscali o scelte politiche, di convenienze economiche o della congiuntura geopolitica. È un mix di sfiducia, impotenza, erosione di un comune senso di giustizia che ha consegnato una grande parte d’Italia all’arbitrio. Un po’ come accadeva nell’Italia del ‘600, tra l’impunità dei bravi e inascoltate grida manzoniane. Certo, messa così, il quadro è “drastico”: l’Italia vanta ancora numerose eccellenze e resta un posto dove è piacevole vivere. Ma anche nel’600 l’Italia vantava eccellenze artistiche e scientifiche. Ma, causa l’assenza di un “guscio” comune, il tramonto divenne inevitabile.