Ha ancora senso aumentare i tassi di interesse? Oppure, dopo la stretta più severa degli ultimi quarant’anni, si rischia di rompere il giocattolo della crescita? A giudicare dai primi successi nella lotta al carovita, giovedì in Spagna, mercoledì in Italia, si può sperare in una minor pressione delle autorità monetarie. Ma i risultati sono ancora modesti, ammoniscono gli esperti delle autorità monetarie. Guai ad abbassare la guardia, dicono, accontentandosi dei progressi sul fronte delle materie prime: le pressioni sui prezzi potrebbero riaccendersi all’improvviso. E a quel punto spegnere l’incendio sarebbe molto più difficile.
Ma la levata di scudi delle banche centrali, decise a prolungare almeno fino al 2024 una politica restrittiva per combattere l’inflazione, sta suscitando le prime resistenze e i primi malumori. A partire, come è comprensibile, dai Paesi più indebitati, Italia in testa, alle prese con il forte aumento degli oneri finanziari che mettono a rischio la stabilità del Paese. Un malumore comprensibile, visti i maggiori oneri per la finanza pubblica (almeno 80 miliardi di interessi in più). Insorge anche la Confindustria, anche se per ora la fiammata inflazionistica ha portato non pochi benefici a una fetta consistente di aziende. La protesta, poi, è tanto più efficace sul piano della propaganda quanto inconcludente sul fronte dei risultati. La Bce andrà per la sua strada, come a suo tempo fece la Fed sotto gli attacchi di Trump. Né, del resto, si può chiedere a madame Lagarde di andare in controtendenza rispetto alle altre banche centrali con il risultato di mettere a rischio gli equilibri tra le valute.
La protesta contro il caro tassi, insomma, è una bandiera politica da sventolare in nome di un presunto “interesse nazionale”. L’accanimento dei “falchi” altro non sarebbe che una manovra, l’ennesima, contro le “legittime” richieste del Bel Paese.
Ma le cose stanno davvero così? Esiste un’alternativa all’aumento dei tassi? Davvero l’inflazione, tornata dopo trent’anni a tormentare l’Occidente, è un malanno serio, difficile da sradicare come dicono quegli stessi banchieri (vedi Lagarde e Powell) che pochi anni fa parlavano di “malessere passeggero”? Domande da un miliardo di dollari che merita però affrontare per uscire dalla retorica di uno scontro di opinioni dettate dall’interesse di parte.
Per prima cosa, merita partire dall’allarme lanciato, in occasione dell’apertura del simposio di Sintra, dalla vicedirettrice generale vicaria del Fondo monetario internazionale, Gita Gopinath, già capo economista del Fondo, studiosa di prestigio estranea al gioco delle parti. La situazione, ha detto, è davvero seria perché l’inflazione sta richiedendo troppo tempo per rientrare nei limiti previsti e auspicati. Per tante ragioni. Materie prime, trasporti, costi dell’energia, ma anche la guerra in Ucraina e le tensioni geopolitiche contribuiscono a tener alta l’asticella. Senza trascurare, non meno importante i costi imposti dall’emergenza climatica.
Merita in particolare segnalare, dice la Gopinath, tra le altre cause l’emergenza lavoro, frutto della combinazione tra calo demografico e tensioni sul flusso dei migranti che introduce un nuovo fattore di stress che complica il quadro, tra l’atro ancora drogato dagli stimoli della stagione della pandemia. Perciò, conclude l’economista, è facile prevedere che le banche centrali dovranno fare fronte a nuovi rischi (e nuovi rialzi) per sperare di avvicinarsi alla situazione pre-Covid. Ma non è detto che ci riescano.
Quali terapie adottare per avere ragione del mostro? Proviamo a chiederlo alla “banca dei banchieri centrali”, la Bis di Basilea, che al tema ha dedicato buona parte del suo ultimo report. Le logiche attuali, si legge, non funzionano perché le politiche monetarie restrittive si scontrano con politiche fiscali dei Governi mediamente ancora espansive. Un compromesso che potrebbe favorire il ritorno di una “mentalità inflazionistica” tipo anni Settanta, con una spirale perversa di prezzi e salari. Oppure, come già denunciano gli studi della Bce, la spirale vera riguarda il rapporto perverso tra prezzi e profitti, in espansione geometrica. Di qui un invito ai Governi perché stringano la leva della politica fiscale, consentendo così alla politica monetaria di raggiungere prima e con minori rischi l’obiettivo di normalizzazione dell’inflazione.
Serve, quindi, che i Governi aumentino le entrate e/o riducano le spese. Così facendo Governi e banche centrali potrebbero evitare di ricorrere a periodiche iniezioni di liquidità nei momenti di crisi salvo poi ricorrere a strette feroci quando la situazione va fuori controllo (come stava capitando). Per evitare il continuo stop and go, i Governi dovrebbero essere consapevoli della necessità di non accumulare debito, che a sua volta limita fortemente le manovre anti-cicliche. I sostegni, in questa cornice, devono essere centellinati ai veri bisognosi escludendo la platea dei questuanti, il potente esercito che può far vincere o perdere le elezioni.
Vaste programme, difficile da tradurre in pratica specie in una situazione incarognita in cui prevale la crescente disaffezione verso la politica. O dove nessuno ora parlare di tasse, anche quando sarebbero legittime e giuste (verso evasori e ricchi). Di qui l’esigenza di rivolgersi alla sola leva dei tassi fino al livello del “sacrifice ratio” come l’ha definito Isabel Schnabel, membro tedesco del Consiglio direttivo della Bce, che ha evocato la necessità di sopprimere la crescita per ridurre l’inflazione al sospirato livello del 2%.
Insomma, la quadratura del cerchio è davvero difficile. La previsione? Con buona pace di Giorgia Meloni l’inflazione è destinata a scendere sotto la pressione delle banche centrali. Ma lo farà lentamente nei servizi, che si confronteranno ancora per mesi con le rivendicazioni salariali di una forza lavoro impoverita. Peraltro, per non alimentare il fuoco dell’inflazione che continuerà a covare sotto la cenere, i tassi non torneranno di sicuro ai livelli del 2019. I tassi reali, sempre negativi nel decennio scorso, per qualche trimestre rimarranno positivi in attesa che le banche centrali, in omaggio alla pressione dei Governi, alzino l’asticella dall’attuale 2% a qualcosa di più, tanto per tener conto delle esigenze della lotta per evitare il disastro ambientale. Una piccola rivincita per le “colombe” già compresse dai “falchi”.
Andrà così? Possibile, se non probabile. Di certo c’è solo che il sentiero della lotta all’inflazione è stretto ma ricco di implicazioni sociali e politiche.
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