Dal primo luglio la Germania ha la Presidenza del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea e, quindi, dei Consigli dei Ministri settoriali dei 27 dell’Ue. Il Cancelliere Angela Merkel ha dichiarato che intende presiedere il Consiglio in modo che i negoziati per il Next Generation EU si concludano al più presto e il programma decolli all’inizio del 2021. Per comprendere la strategia della Repubblica Federale, è utile fare riferimento a tre elementi: a) la precedente “presidenza tedesca” nel 2007; b) il programma di aiuti per la riunificazione della Germania nel 1989-91; c) i nuovi paradigmi del pensiero economico tedesco. Questi tre elementi sono strettamente collegati e il terzo è ignorato (o quasi) nella pubblicistica economica italiana.
Nel 2007 (il precedente “semestre europeo” guidato dalla Repubblica Federale) Angela Merkel, a poco più di un anno e mezzo dalla sua elezione, assunse il ruolo di Presidente del Consiglio europeo in una Germania che in quell’epoca era tutt’altro che euroentusiasta. Nel 2005, quando Merkel divenne Cancelliere, ben il 46% dei tedeschi riteneva che la Germania non avesse beneficiato dall’appartenenza all’Ue e che l’unica cosa a cui l’Unione effettivamente servisse fosse far campare gli altri membri sulle spalle dei sussidi tedeschi.
Edoardo Toniolatti, che vive da anni a Francoforte e collabora con l’Ispi e con il quotidiano online Linkiesta, ricorda che “si trattava di un periodo buio per l’europeismo in generale, non solo a Berlino: era ancora vivido il ricordo dei due referendum con cui, nell’estate del 2005, in Francia e in Olanda era stata bocciata la ratificazione della Costituzione europea. Che due membri fondatori avessero espresso parere contrario rendeva il documento lettera morta”. Angela Merkel guidò, allora, il “semestre” sottolineando l’importanza dell'”anima europea”, un’anima “da ricercare nel suo pluralismo e nelle sue differenze, rese possibili dalla libertà. “L’Europa è il continente della tolleranza”, diventò la frase chiave di Angela Merkel nel 2007 e il tema conduttore di un semestre che garantì, al termine della Presidenza, l’accordo su una road map indirizzata all’adozione finale del trattato – quello che diverrà il Trattato di Lisbona, e che all’inizio, nell’articolo 1bis, cita proprio quell’idea di tolleranza sostenuta da Merkel nel suo discorso.
Si propone qualcosa di analogo oggi la Germania di Angela Merkel? Probabilmente sì. Dopo aver affermato di fronte al Parlamento tedesco che l’integrazione europea è parte integrante del DNA della Repubblica federale, l’intenzione pare essere quella di prendere spunto dalla ricostruzione dopo la pandemia per appianare, in parte, le differenze di sviluppo (e di regole e di funzionamento istituzionale tra i maggiori Stati dell’Ue).
È utile a questo proposito rifarsi all’esperienza della riunificazione tedesca che è costata circa 1.500 miliardi di euro (secondo la Freie Universität Berlin). Ancora oggi uno speciale trasferimento di 100 miliardi di euro ogni anno viene dato ai territori dell’ex-Germania Est per la “ricostruzione”. Il processo di riunificazione non è stato tutto rose e fiori, ma i cinque Länder orientali hanno le stesse regole di funzionamento dell’economia di quelli dell’Ovest e istituzioni con efficienza ed efficacia analoghe a quelle dell’occidente della Repubblica federale.
Rispetto ad allora c’è stato un fondamentale cambiamento di paradigmi economici. Nel 2020, ad esempio, in Germania il rapporto indebitamento della Pubblica amministrazione e Pil si aggirerà tra il 6% e l’8%, a ragione della recessione causata dalla pandemia e di due manovre di bilancio anticicliche rispettivamente di 123 miliardi di euro in marzo e di 130 miliardi di euro all’inizio di giugno.
La spiegazione consueta è che il basso livello dell’indebitamento delle pubbliche amministrazioni rispetto al Pil (il 58% nel 2019, rispetto al 75% nel 2009) ha permesso una manovra di bilancio anche maggiore di quella attuata negli Stati Uniti nella consapevolezza e delle responsabilità della Repubblica federale rispetto a tutta l’Ue. C’è, però, una spiegazione più sottile, che si può toccare con mano se si conosce il mondo accademico tedesco (una quindicina di anni fa ho insegnato all’università di Potsdam). Negli ultimi dieci anni si è verificata una vera e propria rivoluzione nel pensiero economico dominante (e influente) in Germania.
All’inizio del secolo scorso la “scuola economica tedesca” era composta principalmente di storici dell’economia rimasti al margine della corrente dominante anglosassone e (in scienza delle finanze) italiana. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, il pensiero economico tedesco ha avuto come asse portante “l’ordoliberismo”, ossia “il liberalismo delle regole” tra cui centrale quella dell’equilibrio di bilancio, a cui si richiama anche la Corte Costituzionale del Paese.
Se si segue la saggistica che quotidianamente dirama il Social Science Research Network (SSRN) presentando sintesi di articoli (e dando la possibilità di scaricare il testo integrale) di trecento riviste, ci si accorge che una nuova generazione di economisti tedeschi ha sempre maggiore influenza sulle scelte politiche. Sono in gran misura di formazione americana e vengono dalla ricerca empirica. Lo sottolineano accademici di rango come Jens Südekum dell’Università di Düsserdolf e Christian Odendhal che, a Bruxelles, guida il Center for European Policy Reform. Fa parte di questo gruppo (il cui nucleo centrale ha un collegamento settimanale on line) Jakob von Weizsäcker, Capo economista del Ministero delle Finanze.
È un cambiamento profondo: dall’ordoliberismo a nuove tendenze keynesiane. Soprattutto è bipartisan, ossia incide tanto sui Cristiano Democratici/Cristiano Sociali quanto sui Socialdemocratici.