Le homepage dei grandi media non hanno resistito alla tentazione, ma sono in parte perdonabili: Leonardo Del Vecchio – scomparso ieri a 87 anni nella sua Milano – era negli ultimi anni alle cronache finanziarie come primo azionista di Mediobanca. E nessuno – nella storia del leggendario istituto fondato da Enrico Cuccia – ne è mai stato in effetti proprietario singolo al 20%. Del Vecchio non ne era d’altronde il “padrone”: ma non è questa la ragione che suggerisce di lasciar perdere via Filodrammatici e la sua saga in morte e memoria del “Cavalier Martinitt”.
La morte di Del Vecchio allarga – forse in misura superiore ai casi precedenti – il vuoto lasciato negli ultimi anni da figure come quelle di Ennio Doris, Giorgio Squinzi e Bernardo Caprotti (in prospettiva niente affatto inferiori a un Gianni Agnelli). Da ieri più orfana non è Piazza Affari – dove anche il patron di Essilor è rimasto un solido azionista di maggioranza – ma l’Azienda-Italia: anzi l’Azienda Europa. Dietro l’italiano che si contendeva con Silvio Berlusconi il primato tricolore nella classifica Forbes dei Paperoni globali, c’è sempre stato un industriale a 98 carati, non un finanziere. Un campione dell’economia reale: quella dei prodotti e servizi (gli occhiali, oggi proiettati nel meta-virtuale); delle fabbriche popolate di lavoratori in carne e ossa (come lo stabilimento-modello di Agordo). C’è stato un imprenditore self-made man: un uomo che scopre dentro di sé i suoi talenti – il suo “capitale umano” – in una famiglia povera, in un orfanotrofio. Gli hanno concesso la vittoria – già una ventina d’anni fa – negli Stati Uniti: dove non basta mettere sul tavolo miliardi di dollari. Bisogna dimostrare di essere businessmen: uomini capaci di combinare capitali e idee, occupazione e innovazione, rischio e leadership personale.
Negli stessi mesi e anni in cui Del Vecchio ha ricostruito la “sua” Luxottica in Essilor e si è misurato nel tentativo di “de-Mediobanchizzare” le Generali, il dossier che lo interessava di più era il futuro dello Ieo: il polo oncologico d’eccellenza fondato a Milano da Umberto Veronesi (e da sempre carissimo a Cuccia). Un gioiello congelato da guerre di posizione nella finanza meneghina: che frenavano il grande riassetto delle realtà di alto livello nella medicina milanese che per Del Vecchio era inconcepibile non realizzare subito. Perché il Cavaliere lombardo-veneto-globale era l’uomo del fare subito ciò che è possibile fare: come quando gli venne chiesto di investire nel Credito italiano (di cui è ancora primo azionista italiano a trent’anni dalla privatizzazione). Gli era stata offerta la seconda licenza della telefonia mobile in Italia: chissà, nella “scuderia Del Vecchio” forse Omnitel sarebbe ancora italiana.
Certo, è il lavoro degli analisti giornalisti quello di pronosticare il destino dell'”eredità del Vecchio”: fra gossip familiare (tre mogli e sei figli) e ruolo di Francesco Milleri: l’ultimo dei manager professionali cui Del Vecchio aveva affidato il comando sul campo della galassia Delfin. Non c’è dubbio che da oggi Mediobanca è meno sotto assedio: che Del Vecchio (grande azionista anche del Leone di Trieste) era il vero “senior partner” di Francesco Gaetano Caltagirone nella scommessa – ormai in gran parte sfumata – di re-italianizzare le Generali, strappandole al controllo cinquantennale di Mediobanca. Ma la domanda vera è se nell’imprenditoria italiana c’è qualche giovane “unicorno” capace di raccogliere il testimone che Del Vecchio ha impugnato fino al suo ultimo giorno.
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