“Una politica fiscale più attiva nell’Eurozona permetterebbe di modificare più celermente quelle politiche dei cui effetti negativi su alcune categorie di cittadini e di intermediari siamo ben consapevoli”. Mario Draghi, nel giorno della laurea honoris causa in Cattolica, è salito così in cattedra contro l’accusa di aver compromesso gli equilibri della finanza dell’Eurozona con i tassi troppo bassi. Il messaggio è chiaro: il costo del denaro sottozero che mette a rischio i conti del sistema senza peraltro ridare spinta allo sviluppo non è la causa bensì la conseguenza di politiche fiscali miopi che hanno compresso sia l’attività che gli “animal spirits” di Eurolandia. Insomma, cari governi, se volete tassi in ripresa, investite di più. Altrimenti, rassegnatevi a un’economia che galleggia garantendo al sistema il minimo per non affondare, ma incapace a offrire prospettive decenti ai cittadini, a partire dai giovani.



È l’eredità che Mario Draghi consegna a Christine Lagarde che gli succederà tra poche settimane dopo otto anni decisivi per le sorti dell’euro. Oggi, ha ricordato con orgoglio “l’euro è popolare come mai prima d’ora e il sostegno all’Unione europea è ai massimi dai tempi della crisi”. Non solo: la creazione dell’Unione europea, l’introduzione dell’euro e l’attività della Bce hanno incontrato molti ostacoli e dovuto fronteggiare molte critiche, ma alla fine, ha ricordato Draghi, le forze pro-euro hanno dimostrato il loro valore “e oggi sono coloro che dubitavano a essere messi in discussione”.



Nel momento del successo, però, la partita si fatta ancora più difficile, senz’altro più complessa: l’inflazione poco sopra lo zero, la crescita stentata, gli squilibri tra le varie regioni del Continente, stanno a dimostrare che quel che si è fatto finora rischia di non bastare. La ricetta giusta non può passare che “dalla combinazione tra le politiche monetaria e quelli fiscali al sostegno dell’economia”. Ma questa soluzione è osteggiata da un ampio fronte di “falchi” che hanno contestato le ultime decisioni di Draghi al punto da votargli contro nell’ultimo direttorio. L’ultima sfida di Draghi si è così risolta nel voltare le spalle a diversi colleghi del board, tra cui i governatori di Germania, Francia e Olanda, ma anche, non meno potenti, i membri del Consiglio di governo e i capi struttura di Francoforte, gente non abituata a esser disobbedita anche se super Mario l’ha fatto per quattro volte di fila, dal 2011 in poi. Niente di drammatico ai suoi occhi, perché, ha aggiunto con piglio filosofico in Cattolica, “i dissensi sono come uno specchio con cui osservare le proprie azioni e costituiscono uno strumento con cui spezzare la forza delle narrative dominanti”.



Dalla sua, poi, Draghi sa di avere un argomento forte: l’Unione europea non può restare a tempo indefinito a metà del guado. O avanza sul fronte dell’integrazione, a partire dall’unione bancaria ma ancor più sui sistemi di sicurezza per i cittadini, oppure rischia di implodere. Anche il non agire insomma rappresenta una decisione. “Quando l’inazione compromette il mandato affidato al policy maker dai legislatori, decidere di non agire significa fallire”. È questa la lezione più preziosa impartita da mister euro al momento del suo passo d’addio dalla Bce (ma senz’altro non della vita pubblica italiana) segnato dalla frattura all’interno della Bce tra falchi e colombe: in un mondo di mediatori, Draghi, cui certo non difetta l’abilità diplomatica, ha saputo tenere la barra dritta.