Il Governo resta in carica per gli affari correnti, e la sua azione, come previsto dalla circolare firmata da Draghi venerdì scorso, sarà concentrata “nell’attuazione legislativa, regolamentare e amministrativa del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e del Piano nazionale per gli investimenti complementari (Pnc)”. Tuttavia, come spiega Gustavo Piga, sta proprio nella volontà di attuare pedissequamente il Pnrr l’origine della crisi che ha portato il premier a rassegnare le dimissioni. “C’è una lezione di 30 anni fa che i politici e le istituzioni italiane ed europee dovrebbero andare a recuperare”, ci dice il professore di economia politica all’Università Tor Vergata di Roma.
A che cosa si riferisce?
Nel 1992, Bill Clinton riuscì a sconfiggere George Bush sr. in una campagna elettorale importantissima per la storia degli Stati Uniti, alle prese con una recessione, grazie anche allo slogan: “It’s the economy, stupid!”. La lezione da imparare è che i cittadini votano anche in funzione delle politiche economiche che sono state adottate da chi li ha governati. E c’è qualcosa che è andato veramente storto nella politica economica italiana, e anche in quella europea che la influenza, se siamo siamo arrivati al punto di dover perdere un leader della portata potenziale di Draghi.
Lei ha idea di che cosa sia andato storto?
Basta guardare a quali sono state le mosse del premier in politica economica. Draghi ha avuto un costante e unico pensiero: rispettare missioni e traguardi del Pnrr, insieme a tutte le sue condizionalità. Comunemente si pensa che il Pnrr garantisca risorse in cambio di riforme, in realtà occorre anche portare a termine un piano di aggiustamento fiscale identico a quello del Fiscal compact e il presidente del Consiglio ha perseguito quest’obbligo con scientificità. Per capirlo è sufficiente confrontare le mosse di politica fiscale dell’attuale esecutivo con quelle di chi l’ha preceduto, il Governo Conte-2, che aveva cominciato a mettere a punto il Pnrr.
Cosa emerge da questo confronto?
Entrambi i Governi sono stati mostruosamente austeri, quello di Draghi più di quello di Conte. Quest’ultimo promise una riduzione dal 2020 (ricordiamoci in che condizioni eravamo) al 2023 del rapporto deficit/Pil pari al 7,8%, qualcosa come 130 miliardi di euro. L’attuale presidente del Consiglio non solo ha aumentato questa percentuale di rientro (tra il 2021 e il 2024) all’8,4% nel Def del 2021, ma nella Nadef ha cambiato il punto di partenza, cioè il deficit/Pil del 2021, portandolo dall’11,8% al 9,4%.
I numeri sono chiari. Resta però da capire cosa c’entrino con la crisi di Governo…
C’entrano tantissimo, perché la politica fiscale portata avanti dall’esecutivo ha generato costanti mal di pancia e sofferenze nella popolazione e, dunque, a valle nei partiti e poi plasticamente si è riflessa nello scontento sulla questione dello scostamento di bilancio che veniva chiesto a gran voce già dalla fine dello scorso anno. Quindi, la decisione di attuare una determinata politica fiscale è stata certamente foriera di tensioni altissime all’interno della coalizione di Governo. L’Europa, che si lamenta oggi nel vedere l’Italia come un potenziale rischio per il proprio futuro, deve capire che tale rischio è stato generato in larga parte dall’ottusità dei suoi burocrati e dei tecnici italiani che hanno voluto seguire una politica economica opposta a quella necessaria in un momento così grave, con una pandemia, una guerra e una crisi energetica.
Se l’Europa ci vede come un rischio è anche perché lo spread è salito parecchio negli ultimi giorni.
Lo spread indica quanto il resto del mondo si fida di noi. È molto interessante notare che ai tempi del Governo Conte, prima che si abbozzasse il Pnrr, viaggiava a dei livelli simili a quelli degli ultimi mesi prima della crisi di Governo, poco sopra i 200 punti base. Poi è crollato, ancora con Conte a palazzo Chigi.
Perché?
Perché era cominciata la procedura che avrebbe portato in seguito all’approvazione del Pnrr. C’era una fortissima fiducia sul fatto che sarebbe stato lo strumento giusto per salvare il nostro Paese, ma ha fallito. In parte perché l’abbiamo accompagnato con quelle politiche fiscali di cui abbiamo parlato poc’anzi, in parte perché si è cominciato a vedere che i soldi arrivati non venivano spesi oppure erano utilizzati in ritardo. Il ministro Franco, nel corso di un’audizione parlamentare, ha spiegato che dei 15 miliardi da utilizzare per vecchi progetti ne sono stati spesi solo 5, e non sappiamo nemmeno in che modo, perché non c’è trasparenza al riguardo. Ormai è voce comune che i soldi legati al Pnrr rischiamo in gran parte di spenderli male o in ritardo, andando contro le prescrizioni europee. Questo per un motivo molto semplice.
Quale?
Per spenderli, e bene, come abbiamo detto tante volte, occorre la madre di tutte le riforme per avere una classe di acquirenti pubblici, di responsabili delle stazioni appaltanti, all’altezza della loro missione. Invece abbiamo pensato di gestire l’immensa massa di risorse del Pnrr come se nulla fosse, con la stessa struttura che ha fallito negli ultimi 30 anni. Il Governo non ha pensato di prendere i migliori giovani laureati, pagarli bene, farli lavorare in squadra, lungo tutto il territorio, per realizzare al meglio le gare per gli appalti. Ed eccoci quindi al punto che lo spread risale perché il mondo si rende conto che l’Italia non riesce a tirarsi fuori dalla palude economica per mancanza di riforme e politiche fiscali giuste.
Il Pnrr sembra, quindi, da bocciare…
Lasciando da parte il fatto che prevede una marea di riforme, le quali solitamente andrebbero realizzate in periodi di espansione economica, il punto principale è che tutto questo ambaradan che ci portiamo appresso da quasi due anni non ha dato luogo ai successi che avrebbe dovuto generare. Basta constatare che, secondo la Commissione europea, l’Italia a fine 2023 sarà cresciuta, rispetto al pre-Covid, dell’1,4%, contro il 2,8% della media dell’Eurozona. Quindi, ci troviamo ancora una volta con un Paese relativamente più povero degli altri.
Il Governo è caduto perché non ha saputo generare crescita, opportunità e occupazione. La lezione da trarne è che vanno fatte le riforme prioritarie, non centinaia di riforme, e che, soprattutto, vanno messe a disposizione del Paese risorse abbondanti per realizzare investimenti pubblici. Il Paese questo l’ha sentito, i politici l’hanno avvertito, ci sono state fibrillazione interne e il Governo non ha tenuto: la sua caduta è solo la presa d’atto di un fallimento di politica economica.
Non c’è stata allora la percezione, da parte del capo del Governo, di questo malessere del Paese. Anzi, ha evidenziato che erano gli italiani a chiedere che restasse in carica…
Lei mi provoca, ma io sono solo un povero economista, non capisco nulla della scienza della politica.
Dopo il 25 settembre ci sarà ancora il Pnrr, inoltre lo scudo anti-spread della Bce ha condizionalità legate alla politica fiscale. Sembra dura, dunque, uscire dal pantano per l’Italia, chiunque vincerà le elezioni.
Se così è, e devo dirle che purtroppo non dò una probabilità zero a questo scenario, prepariamoci a uno spread che tornerà a salire terribilmente, con l’austerità e l’aumento dei tassi di interesse, prepariamoci a trovare un Paese che diventerà sempre più irritato dalle soluzioni proposte dall’Europa, perché fallimentari, prepariamoci a vedere uno Stato membro come l’Italia pronto a discutere, con certe maggioranze, di una fisiologica uscita dall’euro. Il rischio non è piccolo, è già prezzato nella recente risalita dello spread. Se continuiamo come se nulla fosse rispetto a quello di cui ha bisogno questo Paese per tornare a crescere, se tutto prosegue business as usual, il disastro è dietro l’angolo.
L’ideale sarebbe, quindi, che il nuovo Governo, qualunque esso sia, cercasse di ridiscutere il Pnrr, soprattutto nella parte relativa alla politica fiscale…
Ed è fattibile. Il Governo giallo-verde riuscì a rivedere incredibilmente il ritmo di riduzione del deficit/Pil per aiutare il Paese. Esultai anch’io per questo. Purtroppo dovetti poi prendere atto che tutti quei soldi liberati vennero sperperati per Reddito di cittadinanza e Quota 100 senza contribuire alla crescita dell’economia. Liberare l’Italia dal morso del Fiscal compact è una pre-condizione, occorre poi spendere le risorse per investimenti pubblici ben realizzati, tramite quindi la madre di tutte le riforme: la spending review volta a spendere bene inserendo nella Pubblica amministrazione più vecchia d’Europa una marea di giovani bravissimi che non aspettano altro che contribuire alla rinascita del loro Paese anziché essere costretti a emigrare.
Da parte europea si può lasciar spazio a politiche fiscali diverse da quelle finora prescritte per l’Italia?
Ripeto, c’è un precedente: quello del Governo giallo-verde, cui l’Europa alla fine concesse un ridimensionamento dell’austerità. Si può quindi modificare il cammino di riduzione del deficit, senza abbatterlo in tre anni verso il 3% del Pil, soprattutto se insieme si presenta un piano credibile su come utilizzare le maggiori risorse a disposizione. Ci vuole ovviamente grande leadership, grande intelligenza a livello europeo e italiano, ma è fattibile. Siamo arrivati sull’orlo del burrone e non perché arriveranno al Governo certi partiti piuttosto che altri, ma perché ci hanno portato lì certe politiche economiche che sono state attuate in questi ultimi dieci anni da tutti i Governi, con alcuni che hanno fatto più danni di altri.
(Lorenzo Torrisi)
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