Il prossimo 2 ottobre il Mef lancerà la nuova emissione del Btp Valore con l’obiettivo di ripetere il successo del primo round, quando la raccolta superò i 18 miliardi. A favorire l’esito positivo dell’offerta contribuirà la novità della cedola trimestrale a favore dei sottoscrittori, cui toccherà un ulteriore premio dello 0,5% se deterranno il titolo fino alla scadenza dei cinque anni. Ma conterà più di tutto l’interesse offerto in sede di lancio.



Il Tesoro, per la disperazione del ministro Giorgetti, dovrà dimostrarsi “generoso” con i sottoscrittori, allettati dai rendimenti in costante ascesa sui mercati dove, al contrario di quanto previsto da molti operatori, il rally delle obbligazioni (con il conseguente calo degli interessi) non c’è stato.



Il risultato? Lungi dal finanziare la spesa corrente o tantomeno gli investimenti, i nuovi fondi incamerati dal Tesoro basteranno a malapena a compensare i maggiori oneri provocati dall’aumento dei tassi (i 14-15 miliardi di cui parla Giorgetti) oltre a garantire una parte della cassa necessaria per fronteggiare la pioggia di cedole in scadenza nell’ultimo trimestre.

Non ci vuol molto a capire che il Paese si sta impoverendo, in buona parte a vantaggio degli investitori internazionali. E per il resto sottraendo risorse alla crescita delle aziende. Una sorta di gioco al massacro sotto l’incubo di un default sempre possibile, qualora gli investitori internazionali, impauriti da mosse di politica finanziaria troppo “allegre”, decidessero di passare all’incasso con vendite sostenute.



Difficile che questo possa capitare nel breve. A proteggerci, per ora, è il tasso di inflazione. “In genere – spiega Antonio Cesarano di Intermonte -, la spesa per interessi è sostenibile se il suo costo in percentuale del debito è inferiore alla crescita nominale del Pil”. Ovvero, se il debito costa il 3%, è tuttora meno del Pil “inflazionato”, che si stima sia tra il 4 e il 5%. “Fino al 2025, da questo punto di vista, l’inflazione farà in parte da scudo: ma è un equilibrio delicato che si regge su un livello di prezzi e di crescita del Pil che non decelerino troppo”.

L’inflazione, insomma, si rivela ancora una volta la grande alleata dei debitori, Stato in testa, così come è la vera nemica della crescita. Pensiamoci, prima di accodarci alle accuse alla Bce e alla Fed, le matrigne che aumentando i tassi starebbero affamando i popoli incolpevoli. In realtà la lotta all’inflazione, che non può non passare da una stretta sul denaro, è l’unico baluardo efficace per proteggere i redditi dei pensionati e di buona parte dei lavoratori a reddito fisso. Non solo. Il rialzo dei tassi sta consentendo alle banche centrali di rimpolpare le linee di difesa dell’economia. Dopo le robuste elargizioni erogate per fronteggiare l’emergenza Covid era necessario stringere i cordoni della borsa. In caso di recessione, poi, le banche centrali possono tagliare i tassi con qualche probabilità di successo se si parte da tassi alti. Altrimenti, con il costo del denaro vicino allo zero, viene meno la leva del costo del denaro, inefficace come una pistola ad acqua di fronte a un incendio.

Insomma, con un certo gusto del paradosso, non è insensato scendere in campo a difesa di madame Lagarde e di Jerome Powell. Quest’ultimo in particolare ha pilotato la guerra contro l’inflazione, colpevolmente sottovalutata all’inizio, riuscendo a evitare la caduta nella recessione grazie a un percorso graduale che ha permesso una riaccelerazione dell’economia americana. Certo, i pericoli non mancano, dalla conflittualità sindacale (vedi scioperi nell’auto) alle tensioni sul petrolio. Più ancora la prospettiva di una campagna elettorale infinita e piena di colpi bassi anche a danno del bilancio federale.

Ma, al di là di quanto può accadere nei prossimi mesi, la tendenza che emerge dalle minute della Fed è la convinzione che i tassi resteranno alti a lungo. Anzi, come scrive provocatoriamente il Wall Street Journal, “per sempre”, come si ricava dalla scelta della banca centrale di non segnalare i il “tasso normale” cioè il punto necessario a garantire equilibrio tra prezzi e occupazione. Questo sta a indicare, secondo gli esperti, che i mercati tendono a esigere interessi più alti di quelli conseguiti in passato, come conferma l’andamento dei T-bond Usa.

Il motivo per ora non è chiaro, ha confessato lo stesso Powell. Forse dipende dalla demografia piuttosto che dall’evoluzione della tecnologia o da altri fattori. Prima o poi lo capiremo. Di certo c’è solo che il denaro è destinato a costare di più. Perciò dobbiamo farlo fruttare di più. Altro che manovre a debito nell’illusione che il compito della politica consista solo nel rastrellare quattrini a fronte dei voti raccolti presso una platea elettorale sempre più ristretta.

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