Dopo le elezioni regionali e il referendum, la strategia di Giuseppe Conte era molto chiara: barcamenarsi (se possibile senza troppi scossoni nella sua litigiosa coalizione) sino al “semestre bianco” e, quindi, all’elezione del Presidente della Repubblica e alla fine della legislatura. Questa strategia faceva perno su due assi portanti: a) la difficoltà di cambiare Governo e ancor più di fare elezioni anticipate sino a quando perdura la pandemia; e b) la gestione dei finanziamenti a valere sul Resilience and Recovery Fund (RRF). A sua volta, il RRF era l’elemento chiave per dare corpo a una politica di bilancio che fosse solo in parte basata su nuovo debito delle pubbliche amministrazioni dato che in parte sarebbe stata sostenuta dal RRF.
Il secondo pilastro di questa strategia (l’arrivo dei fondi del RRF nei tempi e nella quantità su cui conta il presidente del Consiglio) è stata messa in serio dubbio dal Consiglio europeo del primo e del 2 ottobre. Per questo motivo, nella conferenza stampa successiva alla riunione, Conte ha trattato del RRF (che non era all’ordine del giorno di un Consiglio dedicato alla politica estera, soprattutto a quella nel Mediterraneo, dell’Unione europea), sostenendo che “l’Italia non permetterà ritardi”.
Il Presidente del Consiglio, con tale affermazione, ha inteso, per così dire, “tenere alto il morale delle truppe”. Ben sa che in un’Ue a 27 in cui ciascun Stato membro ha diritto di veto su temi di rilievo come il RRF, è difficile oggi contare su finanziamenti europei nel volume e nella tempistica delineata nel comunicato diramato dal lungo Consiglio europeo di metà luglio. La stessa Angela Merkel, che presiede sino alla fine dell’anno l’Ue, lo ha ammesso, avvertendo che “farà di tutto per rispettare la tempistica” (ma nulla ha detto sul volume).
In effetti, il RRF è in una doppia trappola. Da un lato, com’è stato analizzato su questa testata in agosto, per avere un fondo delle dimensioni (e della suddivisione tra prestiti e sovvenzioni) quale delineato in luglio, è necessario trasferire capacità impositiva – per imposte di scopo quali quelle sulla plastica, sulle transazioni finanziarie, sui “giganti del web”- dai singoli Stati dell’Unione all’Ue, in particolare alla Commissione: gli stessi esperti giuridici dell’Esecutivo comunitario concordano che ciò richiede un accordo intergovernativo (ossia un trattato) e relative ratifiche dai Parlamenti dei 27 Stati membri. È sufficiente che qualche Stato sia ostile alla “generosità europea” verso Paesi ritenuti, a torto o a ragione, “spendaccioni” per bloccare tutto il processo o limitare seriamente il volume del RRF (che verrebbe sorretto unicamente da un bilancio pluriennale comunitario il cui iter non si è peraltro concluso). Al momento, 7 Stati su 27 sono visibilmente contrari alla “generosità” e vorrebbero un RRF fortemente ridimensionato. Alcuni di loro hanno promesso ai loro elettori che si metteranno di traverso.
Da un altro, il Parlamento europeo e successivamente vari Stati dell’Ue hanno sollevato il nodo dei finanziamenti a Paesi che non sembrano rispettare “lo Stato di diritto” come raffigurato dai “valori europei” quali indicati nei trattati fondanti dell’Ue. Polonia e Ungheria sono sotto accusa in materia d’indipendenza della magistratura e di libertà di stampa e reagiscono non dando il loro assenso al RRF quale delineato a fine luglio. In totale, quindi, gli Stati recalcitranti nei confronti del RRF, quale ipotizzato da Giuseppe Conte, aumentano da sette a nove.
La Cancelliera Merkel sta tentando una mediazione. Non è più, però, “la ragazza” che con la sua energia irritava Helmut Kohl. Da quei tempi sono passati vent’anni ed è un po’ sul viale del tramonto. Una mediazione su temi così delicati e con tante dramatis personae richiede tempo. È questa è una risorsa molto scarsa per Conte che deve predisporre una Legge di bilancio entro un paio di settimane. Venendo a mancare, quanto meno nei tempi e probabilmente nelle dimensioni previste, il RRF, per la vera e immediata esigenza dei finanziamenti per la sanità non resta che far ricorso a quello sportello del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) che è anatema per un Movimento 5 Stelle in piena crisi e sull’orlo di una scissione.
Conte è, quindi, di fronte a un dilemma. Se, come insiste da tempo il Partito democratico, si rivolge al Mes, riesce a fare quadrare (almeno sulla carta) la Legge di bilancio, ma rischia di fare esplodere il M5S (di cui è stato espressione e forse lo è ancora). Se invece non si rivolge al Mes i conti non quadrano. Neanche sulla carta.