Gli aiuti “europei”, a valere sul Next Generation EU, arriveranno, anche e soprattutto perché è interesse precipuo della Repubblica federale tedesca che l’Unione europea e, principalmente, l’unione monetaria, non si sfaldino. È presto per prevedere quale sarà la consistenza e quale l’ammontare degli aiuti dato che è appena iniziato un negoziato che si profila lungo e complesso. Sappiamo, però, che gli Stati che intendono beneficiarne devono presentare programmi concreti per avere accesso ai finanziamenti. Tali programmi dovrebbero essere concordati con le autorità europee: questa sarebbe l’essenza della “condizionalità”.



Per quanto attiene al nostro Paese, gli obiettivi di tali programmi e, quindi, della “condizionalità” europea si possono, per il momento, dedurre dalle raccomandazioni al nostro pubblicate dalla Commissione un paio di settimane fa. In breve, l’Italia dovrebbe assicurare: a) politiche di bilancio tali da permettere una ripresa economica a medio termine e la sostenibilità del debito della Pubblica amministrazione; b) aumentare gli investimenti pubblici e privati; c) migliorare il coordinamento tra Stato centrale e Regioni; d) rafforzare la sanità; e) sostenere la fasce deboli più colpite dalla crisi; f) mitigare la disoccupazione con politiche attive del lavoro; g) rafforzare istruzione e formazione a distanza tramite strumenti digitali; h) fare giungere liquidità all’economia reale soprattutto alla piccole e medie imprese ed alle imprese innovative; i) porre l’accento su investimenti “verdi” e digitali; e soprattutto l) migliorare l’efficienza del sistema giudiziario e  l’efficacia della Pubblica amministrazione. Tutti obiettivi condivisibili e, peraltro, al centro di un’intervista del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, apparsa sul Corriere della Sera del 27 maggio poche ore prima della presentazione da pate di Ursula von der Leyen del Next Generation EU.



In queste ore, il Governo dovrebbe essere al lavoro per predisporre un programma concreto di politica economica triennale, simile, ad esempio, a quelli varati dai Governi Spadolini quando il Paese doveva, contemporaneamente, domare un’inflazione a due cifre e riaccendere il motore della crescita. Tale programma non dovrebbe essere un lungo “libro dei sogni”, ma un documento concreto di 30-40 pagine, con le simulazioni econometriche essenziali su finanza e debito della Pubblica amministrazione, e un’articolazione puntuale di proposte su: a) coordinamento tra Stato e Regioni, b) sanità; c) sostegno alle fasce deboli; d) politiche attive del lavoro; e) istruzione e formazione, f) investimenti “verdi” e digitali; g) riforma della giustizia; e) miglioramento della Pubblica amministrazione.



Per ciascuno di questi temi, in appendice, ci dovrebbe essere un calendario puntuale con scadenze temporali monitorabili e schemi di disegni di legge. Seguendo le indicazioni anche del capo dello Stato, il Governo potrebbe chiamare l’opposizione a collaborare. In caso contrario, l’opposizione potrebbe redigere, e pubblicare, un programma da contrapporre a quello del Governo, nonché chiedere, tramite i propri rappresentarsi al Parlamento europeo, alle autorità dell’Ue di pronunciarsi su di esso dato che rappresenta dell’Italia, se e quando chi è oggi all’opposizione andrà al governo.

Invece di mettersi al lavoro, con Ministri, Ministeri, la dozzina di task force e i circa quattrocento esperti arruolati come consulenti delle amministrazioni, e produrre un programma secondo i lineamenti enunciati nel paragrafo precedente, il presidente del Consiglio ha annunciato la convocazione di Stati Generali dell’Economia da tenersi o nella “sala verde” al terzo piano di palazzo Chigi o nella sala multifunzionale della Presidenza del Consiglio a Santa Maria in Via n. 37/a oppure ancora, come suggerisce il portavoce di palazzo Chigi, una tre giorni a villa Panfili (tipo Le déjeuner sur l’herbe di Edouard Manet oppure, se lo si vuole più lepido e piccante, come il film, anni Sessanta, di Jean Renoir).

Ciò vorrebbe dire muoversi con il piede sbagliato perché da tali assise non si ricavano che esercizi di retorica e monologhi alterni. O ancora peggio, un tentativo di far rinascere “la programmazione concertata” di trenta anni fa nonostante le condizioni siano totalmente cambiate. Il suo momento più alto è stato “l’accordo di San Tommaso” (dal nome del santo patronimico del giorno in cui è stato firmato), il “patto sociale” del 23 luglio 1993 concluso durante la presidenza del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, il quale in un libro dell’epoca lo definì “un metodo per governare”. Il “patto sociale” di allora ha avuto un ruolo chiave nella riduzione degli aumenti dei prezzi grazie, principalmente, all’introduzione del concetto di “inflazione programmata” come guida per la politica economica e per le relazioni industriali, mentre si è rivelato caduco in molti altri aspetti (la contrattazione collettiva a più livelli, la consultazione nella definizione dei documenti di politica economica). Ma già cinque anni dopo, nonostante la firma, in grande stile e pompa, dell’ultimo suo atto formale – il “patto di Natale” del dicembre 1998 – non si riconosceva nessuna delle 38 parti contraenti. Il tentativo di “revival” fatto dal Governo D’Alema nell’ultimo scorcio “fin de siècle”, venne da molti considerato come un certificato di morte.

Oggi ha il sapore di un alibi: nascondersi dietro “gli Stati generali dell’economia” perché il Governo non è in grado di esprimere un programma a ragione delle differenze tra le sue maggiori componenti su punti essenziali quali istruzione, giustizia, infrastrutture e finanza pubblica. Su questi temi, pare il Governo non sappia e non possa decidere. Ossia, governare.