La visita in Europa del Presidente americano Biden e la firma del nuovo trattato atlantico Usa- Gran Bretagna, che rinnova quello stipulato nel 1941 tra Roosevelt e Churchill impone di chiedersi se tra i due continenti può nascere una nuova partnership atlantica come quella che, con alterne vicine, ha caratterizzato, in varie modalità e tentativi, almeno quattro decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Cosa vuol dire “essere atlantici”? A mio avviso, vuole dire coniugare libertà (per sé e per gli altri) con responsabilità (rispetto agli altri), nonché sentirsi a proprio agio, “a casa propria”, sulle due sponde dell’Atlantico. Coniugando libertà con responsabilità si è necessariamente meritocratici.
Considero di essere un “uomo atlantico” perché nato a Roma nel gennaio 1942 ho vissuto metà circa della mia vita professionale nella capitale degli Stati Uniti, e il resto prevalentemente in Italia, mia moglie è francese, i miei figli hanno “padrini” di battesimo americani e britannici, hanno tre passaporti (Italia, Usa e Francia) e votano a tre elezioni politiche, i miei amici più stretti e di più lunga data sono, oltre che italiani, americani, austriaci, britannici, tedeschi, danesi e svedesi e hanno avuto carriere sia nel settore pubblico (nazionale e internazionale) che privato (soprattutto insegnamento, giornalismo e banche). Mi sento egualmente a mio agio in qualsiasi grande città (non ho mai desiderato vivere in campagna) dei Paesi “atlantici”.
Nella mia formazione “atlantica” ha avuto una grande importanza la School of Advanced International Studies (SAIS) della Johns Hopkins University. Nel 1966-68, grazie a borse di studio, ho frequentato le sedi di Bologna (oggi SAIS Europe) e Washington. A Bologna eravamo 89; di questo totale una quarantina, dopo un anno a Bologna, proseguì per un secondo anno nella sede centrale di Washington (che allora aveva circa 250 studenti). Della quarantina, un terzo circa erano europei con borse di studio. I “bolognesi” (sia americani, sia europei) avevano la tendenza di stare molto insieme perché per gli americani l’esperienza di un anno di studi e di vita a Bologna era stata fondante e gli europei tendevano a essere vicini ai loro amici statunitensi nella loro iniziazione alla vita negli Usa. Al SAIS di Bologna ho, poi, tenuto corsi per una decina di anni, mentre, rientrato in Italia, perseguivo una carriera in Patria.
Alla fine degli anni Sessanta del Novecento, si sognava una Comunità economica e politica Atlantica, con due pilastri – da un lato, l’Unione Europea (allora ancora Comunità economica a sei Stati) e, dall’altro, gli Stati Uniti; gli “atlantici” erano ovviamente favorevoli a un ampliamento della Comunità europea, in primo luogo, alla Gran Bretagna. In Europa, incombeva ancora la minaccia del totalitarismo comunista. Gli Stati Uniti si stavano sempre più impegnando in una guerra in Estremo Oriente con la motivazione che il totalitarismo comunista si sarebbe esteso nell’area del Pacifico. A livello internazionale, dopo anni di difficili trattative, si concludeva felicemente il “Kennedy Round” dei negoziati multilaterali sugli scambi, da noi giovani “atlantici” vissuto come la premessa che un commercio più libero significasse anche un mondo più libero per tutti.
Da allora a oggi sono passati diversi decenni. L’impero comunista in Europa orientale si è sgretolato nelle sue contraddizioni. In Asia, un mercato semi-libero convive, non molto bene, con l’autoritarismo politico. Negli Stati Uniti, è tornato al Governo un gruppo dirigente che guarda con attenzione all’Europa, dopo una fase in cui la Casa Bianca ha inteso affermare un primato americano, al di fuori di qualsiasi partnership con l’Europa.
Può esistere ancora quella che David Calleo, un grande scienziato della politica che viveva diversi mesi l’anno in Europa (più specificatamente all’Isola d’Elba), ha chiamato, nel titolo di un suo saggio della fine degli anni settanta, l'”Atlantic Fantasy” nel senso di sogno per il quale occorre impegnarsi a fondo per vederlo realizzato?
Credo di sì, tanto più che i bacilli totalitari imperversano anche nell’Unione Europea e negli stessi Stati Uniti e, come tutti i virus, hanno mutazioni e aggrediscono quando meno se lo ci si aspetta.
Oggi, gli uomini e le donne potenzialmente “atlantici” sono molto più numerosi di quanto lo fossero cinquanta anni fa perché le occasioni di viaggio, di studio e di attività professionale sulle due sponde dell’Atlantico sono molto più frequenti. Mai come oggi non solo è necessario essere “atlantici”, ma è urgente che gli “atlantici” si colleghino tra loro per proposte e azioni che frenino la deriva mediocratica e populista e diano alla partnership economica e politica atlantica la centralità essenziale nell’interesse del mondo intero.
Qual è l’ostacolo maggiore a un rilancio della “partnership” atlantica? Lo mostra visivamente la copertina del fascicolo del 5-11 giugno del settimanale The Economist. Mentre nei decenni che hanno fatto seguito alla Seconda guerra mondiale lo scontro era tra “mondo libero” e Unione Sovietica, la geopolitica non solo degli Stati ma anche delle grandi imprese è caratterizzata in generale da uno scontro con la Cina. In Europa, però, parti politiche e anche imprese credono che la Cina sia un’opportunità con cui è meglio non avere conflitti.
La posizione del vostro chroniqueur è nota: professionalmente, conosco la Cina e i cinesi dal lontano agosto 1970 e in cinquant’anni la sfiducia nei loro confronti è sempre cresciuta. Non so se il Covid-19 sia “sfuggito” da esperimenti (forse per fini di guerra batteriologica) al laboratorio di Wuhan, è certo però che dopo essere stati ammessi all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 non ne hanno seguito alcuna regola e dopo aver siglato una “tregua commerciale” con gli Usa circa un anno fa ne ha trasgredito tutti gli articoli.
Molti europei (e molti italiani) tentennano di fronte a un’alleanza delle democrazie evidentemente non gradita a chi in millenni non ha mai conosciuto la democrazia e anche per questo si ritiene una stirpe eletta. Il vostro chroniqueur sa da che parte stare.
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