La ricapitalizzazione di Mps è stata – nei fatti – l’ultimo atto dell’esecutivo Draghi: e, per molti versi, di un lungo decennio di governo da parte di un centro-sinistra ibrido, largo verso settori del centrodestra e profondo nella sue articolazioni tecnocratiche. La crisi e il salvataggio infinito del gruppo senese ne sono stati un momento fortemente esemplare.
A Siena è stato eletto deputato Piercarlo Padoan – il ministro dell’Economia che nel 2016 ha evitato il crack del Monte decretandone la statalizzazione (confermata nei giorni dietro i pudici riferimenti a un “aumento di capitale”). Poi Padoan si è dimesso, chiamato in corsa alla presidenza di UniCredit, candidato a riprivatizzare Mps secondo le indicazioni dell’Ue. Tentativo fallito un anno fa: nei giorni in cui – alle suppletive – Siena ha riaperto le porte della Camera a Enrico Letta, appena riapprodato al vertice del Pd. A Rocca Salimbeni M5S ha provato – senza riuscirci – ad “avere una banca”: imponendo come amministratore delegato Guido Bastianini.
Soprattutto, attorno al Monte si è cementato un punto d’appoggio del “patto del Nazareno”: l’asse strutturale fra il “nuovo Pd” di Matteo Renzi e Forza Italia di Silvio Berlusconi. Figura centrale ne è stata quella di Denis Verdini: capo dei senatori berlusconiani dissidenti in appoggio al Governo Renzi, ma anche banchiere toscano, per quanto di fortune alterne (la pesante condanna penale che ha poi condotto Verdini in carcere è stata legata al crack del Credito cooperativo fiorentino). Se comunque Renzi non ha avuto remore a lasciar andare in dissesto le Popolare di Vicenza e Veneto Banca (nelle roccaforti leghiste) e perfino Banca Etruria (dov’era vicepresidente il padre di Maria Elena Boschi), il Monte è finora sempre stato puntellato da miliardi privati e soprattutto pubblici.
L’ultimo “piè di lista”< (ma non è detto sarà davvero tale) ammonterà a 1,6 miliardi e sarà versato quando al Mef – con ogni probabilità – siederà un ministro diverso da Daniele Franco. Doveva essere un’eccezione la maxi-iniezione da 5 miliardi decisa da Padoan poche ore nel dicembre 2016 allo scadere del Governo Renzi (furono anzi la sconfitta al referendum sulla riforma Boschi e le dimissioni del Premier a fare evaporare l’intervento del fondo sovrano del Qatar). Ma si sono ormai persi negli annali gli 8 miliardi racimolati sul mercato principalmente col volto di Alessandro Profumo, chiamato alla presidenza del Monte per raddrizzare una nave semiaffondata dall’acquisto di Antonveneta da Abn Amro (oltre 10 miliardi nel 2007, alla vigilia del collasso di Wall Street).
La storia giudiziaria del dissesto Mps è stata scritta quasi del tutto svelando molto poco di quanto avvenuto nell’ultimo scorcio della vicenda semimillenaria della banca. Quella finanziaria sembra ancora lontana dalla conclusione e continua a riguardare da vicino i contribuenti italiani. Quella politica è certamente a una svolta: forse.
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