Da poco più di due settimane, il Piano nazionale di ripresa e resilienza è a Bruxelles, dove la Commissione europea (che, comunque, aveva interagito con le amministrazioni italiane durante l’ultima fase di redazione del documento) lo sta analizzando in stretta interlocuzione con il ministero dell’Economia e delle Finanze.
È l’inizio di un lungo cammino per giungere, prima, all’approvazione del Recovery da parte dell’organo deliberante (il Consiglio dei Capi di Stato e di Governo dell’Unione europea), e poi all’attuazione delle riforme e alla realizzazione dei progetti, secondo il cronoprogramma indicato. È un percorso difficile, tanto più che le leggi delega (o in certi casi di particolare urgenza, i decreti legge) per le riforme devono essere approvati dal Parlamento entro la fine dell’anno in modo da potere essere attuate, in gran misura, nei prossimi due anni e incidere sulla crescita e sulla redditività degli investimenti.
Il Ministro della Giustizia Marta Cartabia ha lanciato un appello forte: non è chiaro quanto sia stato recepito, soprattutto dalla magistratura che, dalle cronache sui giornali, appare avviluppata in tutt’altri problemi. Il decreto legge sulla semplificazione dovrebbe essere approvato questa settimana dal Consiglio dei ministri.
Non solo la magistratura, ma anche gran parte dell’opinione pubblica, della stampa e – quello che è più grave – del Parlamento paiono avere allentato la tensione sul Pnrr (specialmente sulle riforme istituzionali e strutturali che esso comporta) e sembrano pensare che, inviato il documento a Bruxelles, il capitolo sia chiuso e ora si debbano attendere i finanziamenti. Le previsioni relativamente rosee della Commissione europea, secondo cui alla fine del 2023, il Pil tornerebbe ai livelli del 2019, non sono state lette con attenzione: esse ipotizzano che le riforme e la prima fase degli investimenti del Pnrr faranno da motore alla crescita che sarebbe circa del 4% l’anno. Ritornare al Pil del 2019 significa, poi, essere di nuovo ai livelli del 2000 perché per un ventennio l’Italia ha registrato una crescita impercettibile mentre nonostante la demografia e la crisi finanziaria del 2008-2009 gli altri Paesi dell’Ue crescevano a tassi del 2% l’anno circa. Un arretramento relativo della posizione italiana di circa il 24%.
Manca, soprattutto, la consapevolezza che senza le riforme delineate nella versione del Pnrr predisposta dal Governo Draghi, e quasi ignorate nelle due precedenti, si tornerà non solo a crescita rasoterra, ma soprattutto verso il caos finanziario. Il debito pubblico è ormai al 160% del Pil e senza una crescita stimolata dalle riforme non potrà che continuare ad aumentare e, quindi, a non essere ritenuto sostenibile dai mercati finanziari. Da un lato, i tassi d’interesse internazionali stanno mostrando incrementi (anche se per ora leggeri). Da un altro, prima o poi, verranno re-introdotte regole per la stabilità nell’unione monetaria e per gli aiuti di Stato nell’Ue: non saranno necessariamente identiche alle precedenti, ma in un’area valutaria non ottimale (come l’Unione monetaria europea) sono necessarie per il funzionamento della moneta unica. Queste due determinanti potrebbero fare esplodere la situazione italiana e portare a una crisi peggiore di quella del 2011-2012 che potrebbe comportare anche un’uscita dalla moneta unica con una perdita del reddito e del patrimonio di circa il 30% per tutti gli italiani.
Le riforme del Pnrr (e, in misura minore, gli investimenti) sono l’ultimo treno per la ripresa del Paese (dando una spinta alle imprese italiane a investire e a quelle straniere a venire ad operare in Italia) o l’ultima spiaggia prima di una catastrofe che potrebbe portarci a una situazione latino-americana: aumento della rabbia sociale e del populismo con relative politiche economiche peroniste o quasi.
In questo quadro, pare inconsulto parlare di “nuova missione” o “nuova visione” per il Governo Draghi: il Pnrr è di per sé un compito difficilissimo che richiede tutta l’attenzione e tutte le energie disponibili. Anche solamente aggiungere temi divisi come l’approvazione del disegno di legge Zan o la preparazione di un provvedimento sulla cittadinanza imperniato sullo ius soli sono diversivi divisivi e pericolosi perché inducono a uscire da quello che, con il controllo della pandemia, è il compito principale, ove non unico, di Governo e Parlamento.
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