Dal punto di vista economico, il momento storico che stiamo vivendo è difficile da paragonare a situazione passate nell’era moderna o contemporanea. Il Covid-19, spaventoso cigno nero, sta mettendo a dura prova il sistema nel quale eravamo abituati a vivere. Un evento nefasto e non convenzionale che ha causato contemporaneamente il blackout del sistema economico del nostro Paese e non solo. Una crisi di domanda e offerta simultanea che ha spento, almeno per il momento, l’interconnessione sociale ed economica.



Proprio a causa della natura di questo evento – innovativo, rapido, ampio e profondo – c’è bisogno di una reazione altrettanto non convenzionale. Una reazione che non può essere intrapresa attraverso misure canoniche, ma soprattutto già sperimentate. Di fatto tutto questo ha poco a che vedere con classiche operazioni di mercato, l’intervento deve essere massiccio. E, per dimensioni, può essere solo pubblico. 



Le problematiche a questa soluzione non sono poche, sia a monte, il reperimento, che a valle, l’allocazione della liquidità. Per quanto riguarda il primo punto, gli strumenti potrebbero, o meglio, potevano, se si fosse agito in maniera tempestiva e reattiva, essere due. Il primo tramite la Bce, con un acquisto massiccio sul mercato primario dei titoli di stato pubblici dei Paesi colpiti da questa crisi. Ciò però non è permesso per limiti statutari, al contrario di quanto avviene con la Federal Reserve, che non se lo è fatto dire neanche una volta. Il secondo strumento sul quale si sta negoziando molto, a dire il vero troppo, sono i famosi Eurobond, Covid-bond, Emergency-bond o come si voglia appellarli: uno strumento in grado di consentire a ogni Paese membro di collocare sul mercato i propri titoli pubblici garantiti da un collaterale condiviso e quindi una garanzia comune e comunitaria. Non è un mistero che ai Paesi del nord, con Olanda e soprattutto Germania in testa, tale soluzione non piaccia. Ricordiamoci però che la risposta doveva e deve essere immediata, soprattutto per il grado di innovazione e velocità che questo black swan rappresenta. 



È assai condivisa l’idea che l’Ue abbia sbagliato i tempi di reazione, lasciando spazio a un negoziato che non doveva neanche iniziare, ma che, soprattutto in questo momento, stiamo perdendo tempo. E che questo tempo perso possa innescare conseguenze a dir poco devastanti sulla stessa Unione europea, almeno per come la conosciamo adesso. In merito, il Prof. Giulio Sapelli ha espresso un concetto a dir poco efficace dello stato dei fatti: “È stata l’ ennesima dimostrazione dell’inesistenza politica dell’Europa, che è solo un insieme di stati competitivi e non cooperativi”. Ma questo è un altro discorso, un discorso politico che necessariamente dovrà essere affrontato una volta terminata l’emergenza, quando il tempo lascerà spazio a un nuovo momento di riflessione e, come affermato recentemente dal Prof. Domenico Siniscalco, sarà necessaria una nuova Bretton Woods re-stabilizzatrice e re-disegnatrice delle regole del gioco. 

Oggi, purtroppo, non abbiamo il tempo. Quindi c’è bisogno che l’Italia, con Eurobond o senza, tiri fuori il cosiddetto asso nella manica. A quel punto bisognerà andare da soli, andare sul mercato con uno strumento ad hoc che permetta di avere una potenza di fuoco di almeno 350-400 miliardi di euro. Un titolo, che immagino, con scadenza che tenderà a infinito, irredimibile; un modello non troppo distante da quello che venne ideato alla fine della Seconda guerra mondiale, come ricordato dal prof. Giulio Tremonti. I sottoscrittori? Quelli istituzionali e perché no, anche il retail, per coloro che vorranno dare il proprio contributo individuale, patriottico, per il Paese in cui tutti noi viviamo, il più bello del mondo e forse proprio per questo così invidiato.

Ovviamente tutto questo deve essere affrontato con non poco cinismo, e soprattutto prendendo in considerazione il fatto di essere vulnerabili a un vendita allo scoperto che farebbe schizzare il tasso di collocamento e ci porterebbe a non rendere sostenibile un’operazione del genere. Ma questo significherebbe default. Viene difficile però pensare una Ue senza Italia, una Ue fallita. È più facile pensare a un’Italia “commissariata”, vedi Mes, che a un’Europa con un’Italia fallita. Ed è proprio con questo pensiero che sarebbe indispensabile un atto di coraggio, non di poco conto, se le cose dovessero non cambiare da qui a poco. Un atto che metterebbe a dura prova il grande bluff dei Paesi del nord e che ci dia allo stesso tempo la possibilità di dotarci degli strumenti adatti per far ripartire il sistema economico. 

E quindi arriviamo al secondo problema, l’allocazione. Non è difficile osservare che il nostro sistema produttivo è in condizioni a dir poco devastanti. Le soluzioni devono essere veloci e tempestive. In primo luogo, per salvare il salvabile, con un intervento diretto nel capitale di rischio in quelle imprese strategiche, non per motivi di sicurezza nazionale, ma per motivi di sicurezza sociale. Quelle imprese che già versavano in condizioni a dir poco problematiche già prima della crisi e che domani si ritroverebbero fallite, con conseguenze devastanti dal punto di vista dell’occupazione e quindi della tenuta sociale. In questo caso, si parlerebbe di distretti interi. In secondo luogo, per sostenere le aziende sane, che hanno un mercato, o meglio avevano un mercato, e che a causa di questa crisi rischiano di fallire per mancanza di capitale circolante, di liquidità. In questo momento è come se si trovassero in apnea, senza ossigeno. 

Non è un mistero che il nostro grande sistema produttivo abbia un’ossatura formata da tantissime piccole medie imprese che reperiscono capitale attraverso intermediari bancari. Abbiamo un sistema banco-centrico dove in questo momento le banche non sono in grado, come prima, di garantire la liquidità che serve. I motivi sono riconducibili alla numerosa massa di Npl che si ritroveranno in pancia e ratio patrimoniali che dovranno rispettare, vedi Basilea. Un credit crunch alle porte, una staticità di sistema e sistemica che offre poco spazio di manovra, e quindi in questo caso completamente inefficiente. Si devono necessariamente adottare altri strumenti non convenzionali ma utili a iniettare liquidità all’interno del sistema produttivo. La conformazione delle nostre aziende, piccole e medie, in questo caso, permette di fare una riflessione sui minibond.

Questo strumento potrebbe rappresentare un ottimo veicolo di intervento. Ovviamente con una garanzia pubblica che possa fungere da anchor investor, da una parte, o garantendo un collaterale diretto e indiretto, tramite operazioni di riassicurazione, dall’altra. In questo modo si potrebbe fornire liquidità al sistema produttivo, senza gravare troppo sul sistema bancario.

Sia la prima operazione (entrata diretta in equity all’interno delle imprese) che la seconda (finanziamento alle Pmi tramite minibond) andrebbero realizzate attraverso la creazione di un veicolo di diritto pubblico ideato ad hoc per la ricostruzione industriale. Per semplicità, una Iri 4.0. D’altronde fu una situazione di stallo, come la grande crisi degli anni ’30, a portare nel 1933, su proposta e regia di Alberto Beneduce, il ministro delle Finanze di allora Guido Jung e il Governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, a costituire l’Iri con carattere transitorio e soluzione tampone per far fronte a “eccezionali vicende finanziarie”. E in questo senso, l’Istituto articolato in due organismi autonomi: la sezione smobilizzi, dedicata alla gestione delle rilevanti partecipazioni industriali provenienti dai portafogli azionari delle grandi “banche miste”, e la sezione finanziamenti, destinata a fornire le necessarie risorse finanziarie a quelle imprese industriali “orfane” del sostegno fino ad allora assicurato dall’indebitamento bancario a medio termine. 

Una cosa è certa, la modalità di innesco, la profondità e l’ampiezza di questa crisi sono fattori a dir poco non ordinari e soprattutto non convenzionali. E non saranno di certo strumenti di recovery ordinari e convenzionali a farci uscire da una situazione del genere. 

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