Il “no” del Fondo interbancario di tutela dei depositi alla manifestazione d’interesse di Bper per Carige è suonato stonato: forse anche più della rottura delle trattative fra Mef e UniCredit per Mps. Due situazioni certamente diverse: accomunate peraltro da un’eguale situazione di dissesto bancario, costate allo Stato (cioè ai contribuenti italiani) una fetta importante dei 40 miliardi di “bolletta” stimata dal 2008 in poi.
Il respingimento al mittente del Ftid a Bper è presumibilmente non definitivo. A differenza del tavolo Mps – al quale era seduto direttamente il Governo – il ruolo del Fondo è in parte tecnico-burocratico. Il presidente del Fitd, Salvatore Maccarone, ha avuto buon gioco nell’appoggiarsi agli statuti della sua istituzione per declinare l’offerta Bper, basata su un’aggregazione nominalmente gratuita di Carige (nei fatti onerosa per l’acquirente, almeno nel breve termine, in forma di accollo di un’azienda bancaria in forte difficoltà). Sul piano sostanziale, non sembra esservi tuttavia grande differenza fra il “nulla di fatto” a Siena (dichiarato dal potenziale compratore di Mps) e quello maturato – per ora – a Genova, per indisponibilità dell’azionista pro-tempore di Carige.
Sia Carige che Mps sono due banche da tempo incapaci di reggersi sulle loro gambe. A Genova sono intervenute ripetutamente le autorità di vigilanza italiane ed europee, oltreché la costosa solidarietà delle banche italiane attraverso il veicolo teoricamente destinato a salvaguardare i depositanti. Siena non è fallita grazie a una maxi-ricapitalizzazione statale da 5 miliardi, seguita a due aumenti sul mercato da 8 miliardi in tutto: peraltro non sufficienti se ora il Governo italiano si vede costretto a pianificare l’iniezione di almeno altri 2,5 miliardi, se l’Antitrust Ue darà il benestare.
Il piano UniCredit su Mps non era impraticabile: non certo a confronto del salvataggio di Popolare di Vicenza e Veneto Banca da parte di Intesa Sanpaolo, consentito nel 2017 da aiuti pubblici per 5 miliardi decisi dal Governo Gentiloni. Il piano Bper per Carige appariva – appare – più praticabile ancora: a confronto degli oneri che il sistema bancario nazionale ha sopportato – direttamente o indirettamente – nella stabilizzazione dei dissesti bancari susseguitisi nell’ultimo decennio (compresi gli esborsi – peraltro non decisivi – sostenuti per il Fondo Atlante). Solo la politica ha impedito a Mps di essere messo in definitiva sicurezza presso l’unico gruppo bancario formalmente di rango internazionale; e sta ora impedendo al crack Carige di essere risolto presso un medio polo italiano divenuto grande con l’aggancio al gigante assicurativo Unipol.
Se Andrea Orcel – Ceo di UniCredit – è considerato uno dei migliori banchieri europei nel campo delle fusioni e acquisizioni bancarie, Pier Luigi Montani, amministratore delegato di Bper, ha un curriculum perfetto per gestire l’aggregazione di Carige (di cui ha fatto a tempo a essere Ceo). Al primo ha detto di no – quasi personalmente – il leader del Pd Enrico Letta, faticoso vincitore delle parlamentari suppletive a Siena. A Montani è verosimile che stia resistendo – per ora – quel M5S d’impronta ligure (cioè più autenticamente “grillino”) che era giunto ad “avere delle banche” attraverso Guido Bastianini: trasmigrato dal vertice di Carige a quello di Mps nella primavera 2020, con l’Italia chiusa per Covid, ma apertissima nella lottizzazione delle poltrone pubbliche gestita dal Premier Giuseppe Conte-2 e da Roberto Gualtieri al Mef.
Se il passato nelle banche italiane sembra non voler passare mai, stavolta pare davvero difficile incolpare la finanza globale oppure l’arcigna vigilanza dei tecnocrati europei.
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