In Italia è aperta ormai da tempo una questione industriale che negli ultimi mesi si è fatta più acuta; ad aggravarla è la somma di componenti congiunturali e strutturali, ma a peggiorare ancora di più la situazione è la paradossale noncuranza da parte dell’opinione pubblica e della politica. Poca attenzione sui media ha ricevuto l’ultima nota dell’Istat sulla produzione industriale. A novembre, dopo due mesi negativi, si è registrato uno 0,1% in più che non basta a invertire la tendenza. “Corretto per gli effetti di calendario – scrive l’Istituto di statistica – a novembre 2019 l’indice complessivo è diminuito in termini tendenziali dello 0,6% (i giorni lavorativi sono stati 20 contro i 21 di novembre 2018). Nella media del periodo gennaio-novembre l’indice ha registrato una flessione tendenziale dell’1,1%”.
Il motore si è fermato. Le flessioni più ampie si registrano nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori (-5,4%), nella fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-5,3%) e nella metallurgia e fabbricazione di prodotti in metallo (-4,9%). I settori che registrano i maggiori incrementi tendenziali sono la fabbricazione di computer, prodotti di elettronica e ottica (+8,1%), l’industria del legno, carta e stampa (+7,0%) e la fabbricazione di prodotti chimici (+2,9%). La produzione di auto che aveva sostenuto la crescita degli anni scorsi ha avuto un rimbalzo dell’1,8% su base annua, ma è il primo segnale positivo dal giugno 2018. C’è da dire che a novembre hanno registrato un segno più anche i due partner principali dell’Italia, la Francia e la Germania, ma sono variazioni molto piccole, difficile pensare che possano significare un vero cambiamento del ciclo economico. In ogni caso ci vorrà tempo per recuperare quel che si è perso nell’ultimo anno e mezzo.
Dunque, la congiuntura non aiuta, anche perché la questione industriale italiana è molto intricata. La scia di crisi aziendali (sono circa 150 i tavoli di crisi al ministero dello Sviluppo) mostra che la spina dorsale del Paese si è indebolita, scossa da fattori esterni (la competizione internazionale e la rivoluzione digitale) e interni (la fragilità di un sistema industriale che certamente ha trovato molte nicchie di eccellenza nelle quali rifugiarsi, ma non sembra più in grado di replicare la capacità di adattamento mostrata nel decennio scorso). Le piccole imprese lasciate a se stesse diventano sempre più gracili e vulnerabili. Ma al loro posto non si vedono imprese più grandi e solide in grado di prendere in mano la bandiera della crescita. Al contrario. I pochi campioni nazionali sono essi stessi in bilico.
Il Copasir, Comitato parlamentare per la sicurezza, ha lanciato l’allarme scalate ostili. I documenti pubblici consegnati dall’intelligence non fanno i nomi delle aziende a rischio, ma si intuisce che si tratta di Generali, Tim, Eni, Unicredit, solo per citarne alcune. I servizi di informazione parlano di possibili azioni ostili contro le aziende strategiche anche con l’incunearsi nei consigli di amministrazione o tra i dirigenti di soggetti infiltrati da stati esteri. Filtrano i sospetti sulla Francia e, ovviamente, sulla Russia e sulla Cina. Tuttavia, attenzione, i rischi peggiori per le poche grandi imprese italiane vengono dall’Italia.
Clamoroso il caso dell’Ilva. Ora si scopre che i Riva non hanno spolpato il gruppo siderurgico, anzi hanno investito tre miliardi di euro per il risanamento ambientale. Non c’è stata bancarotta fraudolenta secondo il gup di Milano che ha assolto Fabio Riva perché il fatto non sussiste. Resta aperto a Taranto il procedimento per disastro ambientale, vedremo come finirà, intanto sappiamo come sia finita l’Ilva. È una vicenda che richiama quella della Finmeccanica: anche in quel caso l’amministratore delegato Orsi è stato assolto, non ha pagato tangenti in India, intanto il gruppo della difesa ha cambiato non solo manager, ma persino nome e ha perso contratti miliardari.
Poi c’è la vicenda Autostrade; paradossalmente l’Anas al quale i cinquestelle vorrebbero trasferire le concessioni una volta tolte al gruppo Benetton, mette le mani avanti, chiede lo scudo giudiziario (proprio quel che vuole Arcelor Mittal come condizione per continuare il suo investimento), fa capire che non ha i mezzi né finanziari, né organizzativi per sobbarcarsi un tale onere. Intanto un cupio dissolvi circonda l’industria italiana, biasimata, messa sotto accusa, odiata dagli stregoni dello sviluppo zero.
Quando si parla di politica industriale, in Italia si parla solo di salvataggi pubblici, cioè con i denari dei contribuenti e per lo più non si è nemmeno capaci di portarli a termine. Il caso Alitalia andrebbe studiato in tutte le scuole di business, come esempio di quel che non si deve fare. Il Governo prende tempo, per la compagnia aerea come per le altre aziende in crisi, non è in grado di trovare soluzioni; non sono casi semplici, sia chiaro, ma il guaio è che si va avanti a tentoni, caso per caso, senza nessuna idea, non parliamo di strategia. La questione industriale invece andrebbe affrontata in tutta la sua complessità, mettendo in campo progetti e strumenti di politica economica. Altrimenti non resteremo ancora a lungo il secondo Paese manifatturiero d’Europa. Non per la malvagità di assalti stranieri, ma per colpa nostra, per manifesta incapacità nazionale.