Il 19 dicembre 1944 Luigi Einaudi scriveva un articolo intitolato “Tutti facciamo piani”. Il riferimento era al Piano Beveridge e agli altri programmi che le disperse autorità italiane e le coese autorità alleate stavano preparando in vista dell’imminente fine della guerra. Con la consueta, brillante e sarcastica prosa, Einaudi smontava uno dei grandi miti del tempo: tutti facciamo piani e non soltanto i governanti dotati di un grande potere. Pianifica la massaia che deve provvedere alla mensa della famiglia o l’imprenditore che deve prendersi cura dell’azienda. Esistono piani a breve, a medio e a lungo termine, calati dall’alto da un’autorità di comando o issati dal basso da una miriade di piccoli imprenditori e consumatori. La vera distinzione è tra piani buoni e cattivi: i primi predispongono i mezzi adeguati per raggiungere i fini desiderati, i secondi no. Scriveva l’economista che di lì a poco sarebbe diventato uno degli artefici della ricostruzione e Presidente della Repubblica italiana: “La distinzione fondamentale tra i piani è quella di buoni e cattivi, ossia fra quelli in cui i mezzi adeguati sono adatti e quelli in cui sono disadatti al fine che si vuol conseguire”.



Pochi giorni fa, in un altro periodo di sofferta festività, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciava tre fasi nella lunga gestione dell’emergenza coronavirus: il confinamento o lockdown fino al 13 aprile, poi un periodo di convivenza col virus, infine, in un tempo ancora da determinare, il ritorno a una nuova normalità.



In realtà, a pensarci bene, le fasi sono due: il lockdown fino al 13 aprile, ma già si parla di un prolungamento, e la fase successiva, più o meno lunga, di convivenza col virus. Il ritorno a una nuova normalità è, al momento, lontano. Oggi non possiamo pianificare la fine del blocco. Sarebbe un cattivo piano, nel senso di Einaudi. Lasciamo ai virologi il delicato compito di stabilire quando sarà possibile uscire di casa. Ma sarebbe un imperdonabile errore farsi trovare impreparati e perdere altro, prezioso, tempo per impostare una ripresa dell’attività produttiva. Di più, sarebbe imperdonabile non fare tutto quello che è umanamente possibile per gestire fin d’ora, in modo coordinato e razionale, le due congiunte fasi dell’emergenza economica.



Cercherò di portare un piccolo contributo alla definizione di un piano per la gestione dell’emergenza economica.

Fare un piano significa innanzitutto fare due conti. Il 2 marzo scorso l’Istat pubblicava alcuni dati sul Pil e l’indebitamento delle pubbliche amministrazioni in Italia riferiti al periodo 2016-2019. Nel 2019, prima dell’uragano, il Pil ammontava a circa 1.787 miliardi di euro (a prezzi correnti) con una crescita dell’0,3% rispetto all’anno precedente (la più bassa dal 2014), il debito complessivo a circa 2.409 miliardi e l’indebitamento netto a oltre 29 miliardi e 300 milioni di euro. Dunque, nel 2019, il rapporto debito/Pil era pari al 134,8% (stabile rispetto all’anno precedente) mentre il rapporto deficit/Pil scendeva all’1,6% rispetto al precedente 2,2%. Cifre sostanzialmente deludenti, fatta eccezione per l’inatteso calo dell’indebitamento.

Poi arriva l’uragano. Ancora è presto per calcolare i danni. Il Centro studi della Confindustria stima una riduzione del Pil del 10% nel primo semestre del 2020 e del 6% su base annua. Ma sono stime provvisorie. Alcuni analisti prevedono un aumento del rapporto debito/Pil dall’attuale 134,8% al 180%. Comunque sia, occorre effettuare un calcolo, sia pure provvisorio. Quello che è certo è che aumenterà il numeratore (il debito pubblico) e si ridurrà il denominatore (il Pil). Il calcolo dovrebbe avere uno scopo principale: determinare l’ammontare di risorse necessarie per fronteggiare l’emergenza e riavviare il sistema produttivo italiano.

In questi giorni tutti hanno ripetuto il draghiano “whatever it takes”. Bene, allora determiniamo cosa e quanto occorre per ripartire (pur sapendo che le risorse non sono infinite). Supponiamo che occorrano 180 miliardi di euro (il 10% del Pil). Si tratta allora di elaborare un piano, di predisporre i mezzi, per raggiungere alcuni desiderati e prioritari fini assegnando, sia pure in un provvisorio bilancio preventivo, le necessarie risorse.

Il fine ultimo dovrebbe essere quello di ricostruire la casa comune danneggiata, possibilmente rendendola migliore. In concreto, si tratta innanzitutto di aiutare le famiglie e i singoli consumatori a fronteggiare l’emergenza con sussidi, bonus e altri ammortizzatori sociali. Il Governo, con comprensibili ritardi e inefficienze, ha intrapreso la strada giusta coinvolgendo le comunità locali amministrate dai sindaci e le comunità sociali del terzo settore.

Si tratta poi di aiutare le imprese. Anche in questo caso il Governo sembra aver imboccato la giusta strada. In questa fase era necessario identificare le filiere essenziali per proteggere la salute dei lavoratori e dei loro familiari e rifornire l’intero paese dei beni primari. Ma tutte le imprese devono poter disporre della necessaria liquidità per fronteggiare il forzato lockdown. Nell’emergenza si è capita, forse, l’importanza sia della rete di solidarietà del terzo settore (chi si prenderebbe altrimenti cura dei tanti anziani soli e impossibilitati a uscire?), sia degli stessi immigrati (in questo momento in agricoltura mancano 200.000 lavoratori: chi provvederà agli imminenti raccolti?). Appena sarà possibile il Parlamento dovrebbe riflettere sui modi per “regolarizzare” l’utilità sociale di immigrati, volontari e imprese sociali.

Infine, il Governo dovrebbe varare un piano straordinario di opere pubbliche per sostenere, rafforzare e ammodernare l’apparato produttivo italiano. Non sarà facile tornare ai vecchi rapporti debito/Pil e deficit/Pil, ma, senza le necessarie innovazioni, non sarà neppure possibile. L’Italia deve saper ricostruire una casa più bella. Pensiamo, per esempio, allo smart working. Ne abbiamo, drammaticamente, compreso l’utilità: possiamo lavorare da casa risparmiando tempo ed energie. Ma spesso la connessione cade e la banda è tutt’altro che larga. Perché, allora, non cominciare a progettare un potenziamento o un allargamento della rete esistente? Nell’immediato sosterrà l’occupazione e il reddito, nell’immediato futuro renderà il Paese più efficiente e competitivo. Lo stesso vale per la manutenzione straordinaria di scuole, strade, ponti, ferrovie … Ora che le scuole e le strade sono vuote perché non pensare, per esempio, a un piano di manutenzione straordinaria (ovviamente nei limiti del possibile e non appena sarà possibile)?

Arriverà il momento in cui potremo uscire di casa. In quel momento dovremo sapere cosa fare. Vi sono alcune questioni essenziali da affrontare e chiarire. Primo, chi può riprendere a lavorare? Le imprese che producono beni e servizi essenziali e tutte quelle che sono in grado di garantire sufficienti (ma inviolabili) condizioni di sicurezza. Gli esperti della materia dovranno definire gli standard minimi di sicurezza.

Secondo, come si potrà lavorare? I tempi e gli spazi del lavoro, per assicurare le indispensabili condizioni di sicurezza, dovranno essere ripensati. In questi giorni vi sono già architetti e designer che progettano la nuova disposizione dei posti in cinema, teatri, ristoranti e in tutti quei luoghi che eravamo abituati ad affollare. Pensiamo, per esempio, a un campeggio. Probabilmente già quest’estate dovranno essere apportate delle modifiche strutturali, pena la mancata apertura con l’annessa sofferenza della disoccupazione per tanti lavoratori stagionali e un impoverimento delle comunità locali. Ma con un po’ di fantasia (e tanta pazienza per convertire in energia positiva il comprensibile scoraggiamento) si potranno adottare gli opportuni accorgimenti, riducendo il numero delle presenze, distanziando roulotte e tende, aumentando i servizi e così via.

Terzo e ultimo, con quali aiuti famiglie e imprese potranno gradualmente tornare a una (nuova) vita normale? Con gli aiuti dello Stato, e cioè della comunità nazionale, e dell’Europa e cioè della comunità delle nazioni che abitano il Vecchio continente. Sarà necessario prolungare gli aiuti già concessi, durante il lockdown, a famiglie e imprese e pensare a nuovi interventi di sostegno all’economia: per esempio, ai consumatori potrebbero essere dati dei bonus, come già in Cina, da spendere entro una determinata scadenza in modo da stimolare i consumi e quindi la produzione. Ma soprattutto dovrà essere varato, o meglio, pienamente implementato, un grande piano di investimenti pubblici per ammodernare il Paese e trainare le imprese private, a cominciare da quelle che operano nel vitale comparto delle costruzioni.

La nuova Commissione europea, presieduta da Ursula von der Leyen, pochi mesi fa, ha presentato un piano di investimenti pubblici per traghettare finalmente l’Europa verso un’economia green e sostenibile. Il piano prevede una spesa, in dieci anni, di mille miliardi di euro. Si approfitti dell’emergenza per dimezzare i tempi di realizzazione di un piano già approvato.

L’Europa ha già fatto molto. Ha sospeso il Patto di stabilità e crescita e la normativa in materia di aiuti di Stato consentendo all’Italia e agli altri Paesi colpiti di indebitarsi nella misura necessaria. Non solo. La Banca centrale europea si è impegnata ad acquistare ingenti quantitativi di titoli pubblici che difficilmente potrebbero essere collocati sul mercato finanziario. La Commissione ha presentato un programma per 100 miliardi di cassa integrazione europea denominato Sure (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency). Ora predisponga un programma comune, finanziato con fondi europei (meglio se eurobond), per battere definitivamente il coronavirus e per costruire, accanto all’Unione monetaria, l’indispensabile pilastro dell’Unione fiscale.

L’Europa sembra aver capito la lezione del 2008. Allora non comprese che una grande crisi richiedeva un intervento straordinario. Oggi non ha esitato a sospendere le regole ordinarie e a progettare azioni straordinarie. C’è un episodio poco noto che forse vale la pena di ricordare. Nel 1931 il Governo tedesco nominò una Commissione, composta da autorevoli economisti, per studiare una serie di misure volte a contenere la montante disoccupazione. Wilhelm Röpke, forse l’economista più autorevole, propose un piano straordinario di opere pubbliche finanziato con prestiti esteri. L’amico e collega Friedrich von Hayek, futuro Premio Nobel per l’Economia, gli inviò un articolo critico sostenendo che la deflazione allora in corso sarebbe stata salutare e poteva essere interrotta solo per “ragioni politiche” e cioè per contrastare l’ascesa di Hitler. Lasciò all’amico valutare se sussistessero quelle condizioni, dal momento che si trovava all’estero e, in quel caso, lo autorizzò a non pubblicare l’articolo.

L’articolo rimase inedito ed è stato pubblicato solo di recente. Il piano non fu varato e in pochi mesi la disoccupazione passò in Germania da meno di 2 a più di 6 milioni di unità, portando trionfalmente Hitler al potere. Nella seconda metà degli anni Settanta, dopo aver ricevuto il Premio Nobel, Hayek, rievocando quell’episodio, sostenne che se fosse diventato ministro dell’Economia, in presenza di una nuova grande crisi, non avrebbe esitato ad attuare manovre espansive.

Oggi siamo di nuovo in una grande crisi, per di più simmetrica (colpisce tutti) e sconosciuta perché mai verificatasi in un’economia globalizzata. L’Europa sembra aver capito la lezione. Speriamo che sia anche capace di preparare, insieme ai responsabili delle comunità nazionali, un buon piano, nel senso di Einaudi, articolato in due fasi e con specifiche poste di bilancio. Lasciamo ai virologi scandire i tempi della ripresa, ma iniziamo subito a ricostruire la casa comune.

Leggi anche

VACCINI COVID/ Dalla Corte alle Corti: la neutralità che manca e le partite aperteINCHIESTA COVID/ E piano pandemico: come evitare l’errore di Speranza & co.INCHIESTA COVID BERGAMO/ Quella strana "giustizia" che ha bisogno degli untori