L’ipotesi di fare del dollaro la valuta ufficiale dell’Argentina è finita nel fascio delle bizzarrie – secondo la maggioranza degli osservatori – che hanno sostenuto la candidatura di Javier Milei, peraltro alla fine eletto Presidente a Buenos Aires. Senza nulla togliere a tutti i profili politici inquietanti dell’economista “libertario” Milei, la suggestione di “dollarizzazione” dell’economia argentina sembra meritare almeno un attimo di attenzione: se non altro per notare che risente di un spirito del tempo, al di là della realtà del Paese sudamericano.
Non può essere dimenticato, anzitutto, che appena dieci mesi fa, l’Argentina – allora presieduta dal peronista Alberto Fernandez – s’impose alle cronache internazionali per la proposta congiunta di dar vita a una moneta unica con il Brasile, tornato a essere governato da Inacio Lula. Il “Sur” – questo il nome ventilato per la nuova valuta – avrebbe dovuto essere collante e propellente di due Paesi che assieme generano il 5% del Pil globale; puntando a dare maggior solidità a due economie più che potenzialmente ricche, ma strutturalmente deboli nella gestione finanziaria interna ed esterna.
È stata tuttavia evidente fin dapprincipio la connotazione sociopolitica populista dell’iniziativa: sulla quale si allungavano le ombre di un’endemica rivalità fra i due popoli. Era d’altronde percepibile l’intento di dare soggettività economica all’America Latina, e ricerca ennesima di autonomia dalla dominanza dell’America del Nord. Un’istanza – questa – trasversale fra il populismo “di sinistra” e di “destra”, sia nel Brasile del dualismo Lula/Bolsonaro, sia in Argentina. È solo in parte curioso che l’argomento-obiezione subito portato contro l’ambizioso “indipendentismo” incarnato dal Sur è stato che la “moneta comune” già esistente in Argentina e Brasile c’è già ed è il dollaro stesso: fra l’altro valuta di riferimento dei periodici aiuti del Fmi all’Argentina, Paese abbonato all’insolvenza.
È vero, ora, che la dollarizzazione vagheggiata da Milei s’inserisce nell’eterna dinamica pendolare (di attrazione-repulsione) di Buenos Aires e degli altri Paesi latino-americani rispetto agli Usa. Ma è altrettanto significativo che questo avvenga nel corso di una crisi geopolitica planetaria nel quale il “Sud Globale” (cui l’America Latina certamente appartiene) sembra essere emerso come qualcosa di più di una categoria mediatica. E fra le linee di conflitto – fra i nuovi muri – che vanno ridisegnando la mappa del pianeta già contrassegnata da guerre – stanno prendendo forma nuove valutarie. Anzi, stanno ridefinendosi due aree in competizione: quella del cinese renminbi contrapposta a quella “occidentale” in cui tuttavia è difficile disconoscere il primato del dollaro sull’euro.
Se da un lato una quota crescente degli scambi commerciali globali non viene più regolata in dollari, dall’altro l’Occidente si va rimodellando non solo sul piano politico (luogo della democrazia) e militare (Grande Nato estesa a Giappone, Sud Corea, Australia e Nuova Zelanda), ma anche sul piano economico-finanziario. La re-industrializzazione avviata soprattutto Oltreatlantico – anzitutto per ri-americanizzare le produzioni tecnologiche – e lo sforzo europeo di riconvertire il proprio sistema energetico sganciandolo da gas e petrolio (cioè da Russia e Opec) spingono inevitabilmente a ricreare una situazione non dissimile da quella che ha contraddistinto il dopoguerra fino agli shock energetici degli anni ’70. E l’estrema sintesi di quella situazione era l’egemonia del dollaro su tutte le valute europee, strettamente agganciate al biglietto verde da cambi fissi.
L’euro è nato solo dopo una gestazione durata trent’anni e segnata in modo decisivo dalla caduta del “muro” sovietico. Se ora quel muro si rialza (a delimitare un più importante confine “eurasiatico”) è evidente che un assestamento “neo-occidentale” già in corso premerà anche sull’euro: soprattutto quando l’eurozona continua – anche in queste settimane – a essere scossa dagli squilibri economico-finanziari fra i vari Stati-membri. E lungo questa dimensione non sarebbe affatto sorprendente se “la ri-atlantizzazione” delle economie portasse con sé forme di nuovo “coordinamento valutario”, che coinvolgerebbe anche la sterlina, probabilmente in chiave di rientro della Gran Bretagna nell’Ue; e forse anche Israele. Ma uno scenario che sembra profilarsi – sempre meno fantapolitico-finanziario – è la costruzione di un “Commonwealth occidentale” complessivo, di cui – vi sono pochi dubbi fin d’ora – la valuta dominante sarebbe il dollaro. Ed è lo scenario su cui scommette il pur pittoresco neo-Presidente argentino.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.