In Generali è ormai muro contro muro fra Mediobanca e il patto dei contendenti (Francesco Gaetano Caltagirone, Leonardo Del Vecchio e Fondazione Crt). E nel vuoto politico aperto dalla scadenza-Quirinale è ovvio che le authority si muovano a disagio. L’Ivass (cioè Bankitalia) ha acceso un faro (non accecante) sulle dimissioni polemiche del grande socio e vicepresidente Caltagirone, che lamenta poca attenzione di consiglio e top management per i suoi rilievi alla strategia e alla gestione. La Consob (non senza qualche rumorosa tensione interna) ha dal canto suo “vidimato” la lista presentata dal consiglio stesso in vista dei rinnovi assembleari di primavera: lista accusata dai “pattisti” sfidanti di essere invece essenzialmente dettata da Mediobanca, socio di maggioranza molto relativa e non più certa.



Fra scalate dei pattisti – peraltro eccellenti, prolungate e alla luce del sole – e difese affannate (Mediobanca ha dovuto prendere a prestito un pacchetto di titoli Generali per rafforzare la sua posizione di voto), a Trieste si va intanto ricreando una situazione già vista. Alla scomparsa di Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca, nel 2000, il delfino Vincenzo Maranghi corse subito a proteggere l’istituto e il suo gioiello della corona ristrutturando il muro che storicamente reggeva via Filodrammatici: non più affidabile né nella componente bancaria (Comit, UniCredit e Bancaroma), né nei rappresentanti tradizionali del capitalismo nazionale. Maranghi fece scalare Mediobanca da Vincent Bolloré e da altri soci esteri, ma suscitò la reazione dell’allora potentissimo governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio. Fu quest’ultimo a ispirare una contro-scalata diretta delle Generali da parte di grandi banche e Fondazioni italiane.

Lo stallo che ne derivò in fondo dura tuttora. Portò anzitutto all’estromissione immediata di Maranghi da Mediobanca e quindi alla fine brusca dell’era Cuccia. E da allora l’istituto – pur formalmente autonomo e con management interno – ha imboccato la via di un continuo declino. La banca d’affari cui ancora a metà anni 90 l’Antitrust assegnava una posizione dominante nel mercato interno dell’investment banking è da anni poco più che marginale: anche sotto la pressione crescente della Cassa depositi e prestiti pubblica. Mediobanca è uscita da Rcs e Tim, per diverse ragioni aziende strategiche nel Paese. Ha visto sciogliersi i legami con tutte le grandi banche (mentre non è maturata l’ipotesi di avvicinamento a Mediolanum). Partner un tempo chiave (come il gruppo Ligresti) sono usciti di scena, mentre nuovi soggetti del capitalismo nazionale  – come Del Vecchio e Caltagirone – non hanno offerto sponde e sono infine divenuti ostili.

È su questo sfondo che Mediobanca sta allestendo un ennesimo muro attorno alle Generali: contando su protezioni politico-istituzionali “last-minute” o sull’appoggio  di azionisti per ora non schierati (come Edizione Holding, reduce dalla cessione di Autostrade a Cdp). Il mercato ha cominciato a interrogarsi pure sulla possibile – e nel caso clamorosa – attenzione di Exor. Resta il fatto che il muro eretto nel 2002 attorno a Piazzetta Cuccia non riuscì a proteggere né Maranghi, né “l’eredità Cuccia” e crollò invece addosso a Mediobanca stessa, che non è mai riemersa del tutto da quelle macerie. Vent’anni dopo le Generali sembrano correre lo stesso rischio: che il muro contro muro provochi frane distruttive anzitutto sul gruppo del Leone. Il sistema-Paese non se lo può permettere.

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