Poste italiane ha toccato in questi giorni in Borsa il suo massimo storico, superando per la prima volta 11,5 euro. Ci era arrivata vicinissimo quindici mesi fa: il venerdì di Codogno. Poi, nell’arco di tre settimane, il titolo è fatalmente precipitato causa Covid con tutta Piazza Affari, con tutti i listini mondiali.



Nel marzo 2020 Poste è rapidamente ricaduta sotto i i 7,5 euro: il prezzo dell’Ipo dell’ottobre 2015. Ma in poco più di un anno il recupero è stato del 70%. E non sfigura con quello messo a segno nello stesso arco di tempo da Amazon (+95%): che però è una super-blue chip tecnologica e una public company globale, non un’azienda nazionale vecchia di 139 anni e tuttora controllata dallo Stato.



Il fatto che Poste italiane sia in parte concorrente di Amazon – nella micro-logistica di massa, nei servizi digitali per famiglie e piccole imprese, nella finanza personale – può spiegare in parte non piccola perché il titolo piaccia così tanto ai mercati. I quali non paiono curarsi troppo del fatto che più la quotazione sale, più realistica diventa la prospettiva del collocamento di una seconda tranche da parte del Tesoro, del resto già prefigurata. L’oggetto di questa riflessione non è tuttavia riassumere le numerose analisi che hanno spinto fino a 14 euro il prezzo-obiettivo assegnato  a Poste Italiane anche dopo i conti di un 2020 difficile.



Il fine di questo post è invece anzitutto rammentare quando e perché il titolo ha raggiunto il suo minimo storico: 5,4 euro. Erano trascorse poche settimane dal primo collocamento e una domenica di inizio 2016 un importante quotidiano strillò in prima pagina l’indiscrezione sull’intenzione del governo Renzi di salvare Mps, accorpandolo proprio alle Poste. Non accadde (il Monte fu alla fine salvato direttamente dallo Stato a fine 2016), ma nei due anni successivi l’azione Poste ha galleggiato a mala pena attorno al valore cui era stato venduto a centinaia di migliaia di risparmiatori italiani.

Il decollo vero del titolo Poste avviene dopo il voto politico 2018, quando supera per la prima volta gli 8 euro. Ricade a 6 euro in autunno, quando il progetto di Legge di bilancio presentato dal Conte-1 porta lo spread a 350. Ma da inizio 2019 la risalita di Poste in Borsa procede uniforme: alla fine indipendente anche dal ribaltone di governo. Il gruppo presieduto da Maria Bianca Farina (veterana del gruppo e artefice di Poste Vita) e guidata dal Ceo Matteo Del Fante (lunga scuola Cdp) raggiunge a inizio 2020 gli 11,4 euro anche se la ripresa italiana non si vede, anche se i grandi titoli bancari nazionali – ritenuti “comparables” di Poste – sono in affanno.

Nel maggio 2021 viene quindi spontaneo suggerire: nessuno tocchi Poste, “lasciatela lavorare” (ma vale anche per Eni e per Enel). Anzitutto e soprattutto: nessuno osi nominare “Mps” (o “Alitalia“, o altro) accanto a “Poste italiane”. Invece capita di ascoltarlo o di leggerlo.

Lo Stato italiano che oggi piace ai mercati sembra essere chiaramente l’azionista “dormiente” di controllo delle Poste. Non quello che ha ceduto più di vent’anni fa l’intero controllo Autostrade, salvo oggi affannarsi per ricomprarlo. Non è improbabile che sul tema – sugli aggiustamenti di modello nel dopo Covid (cioè non dopo 2008, cioè nel dopo-ultraliberismo) – la cronaca offrirà spunti per tornare.

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