La centesima Giornata del Risparmio non ha deluso le attese di un appuntamento fuori dalla routine. È stato il Presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, a usare toni forti per rilanciare il risparmio come risorsa strategica per l’Azienda-Italia. Ha denunciato una tassazione troppo pesante come fattore di pericolosa spinta alla fuga del risparmio italiano all’estero: ha sottolineato come su quanto le famiglie accumulano e detengono presso gli intermediari nazionali agisca nei fatto un prelievo di natura patrimoniale. Ha osservato come, d’altro canto, troppo risparmio giaccia inerte, principalmente presso il sistema bancario: e non costituisca carburante per la crescita delle imprese e in generale per gli investimenti del sistema-Paese. Lo ha detto avendo come primo interlocutore il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, presente alla Giornata assieme al Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.



L’intervento deciso del leader dei banchieri risente certamente del clima creato dal “contributo volontario straordinario” chiesto e ottenuto dal Governo per quadrare i conti della manovra 2025. Che sia o no definibile tecnicamente come tassa sugli extraprofitti bancari si discute ancora, ma la riflessione pubblica di Patuelli ha certamente il merito di aver richiamato al centro del dibattito una questione aperta, problematica: non fosse altro perché il risparmio degli italiani (oltre 5mila miliardi di euro quello detenuto in strumenti finanziari) è stato falcidiato dall’inflazione dell’ultimo biennio, laddove invece le banche hanno realizzato utili molto importanti grazie alla politica monetaria restrittiva adottate dalle banche centrali per contrastare le fiammate dei prezzi.



La ricetta esposta con estrema concisione da Patuelli sembra poter essere sintetizzata così: è necessario mobilizzare il risparmio privato “sovrano” con un più attento trattamento fiscale mentre la politica economica nazionale non può che tornare a far leva su un sistema finanziario bancocentrico. Si tratta di premesse che meriterebbero – meriteranno sicuramente – un ampio e dettagliato svolgimento analitico. Fin d’ora suscitano comunque un’osservazione che non sembra facilmente contestabile: siamo di fronte a un netto cambio di paradigma rispetto a un trentennio abbondante in cui la globalizzazione finanziaria di mercato è stata egemone, come teoria (ideologia) e come scenario operativo. Anche in Italia.



La grande stagione delle privatizzazioni, negli anni ’90, sancì il crollo di un muro, nelle due direzioni. Il controllo della grandi società pubbliche italiane (dalle banche, a Telecom, Autostrade, Enel ed Eni) veniva aperto ai grandi investitori internazionali e viceversa: al risparmio degli italiani veniva spalancato l’intero orizzonte delle opportunità d’impiego. La stella polare era la miglior combinazione di rischio-rendimento: senza più alcun vincolo o preferenza di passaporto, laddove perfino la lira era destinata alla rottamazione per il subentro dell’euro. E sul mercato le banche – per definizione – non erano più “sovrane”, dovendo far spazio ad asset manager e broker: talvolta all’interno dei gruppi bancari, ma con una drastica soluzione di continuità rispetto al vecchio deposito, con l’opzione del titolo di stato nazionale. Ora il mantra sembra cambiare di nuovo: nella struttura e negli obiettivi dell’intermediazione finanziaria. Che sembra tornare nell’alveo di un certo dirigismo. Ci sarà tempo per seguire gli sviluppi.

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