Non è la prima volta che dal sistema bancario giungono segnali di aperta insofferenza per la montagna di liquidità congelata nei conti correnti. Nei giorni scorsi è toccato a una banca innovativa come Fineco avvertire la clientela di riservarsi il diritto di chiudere un rapporto qualora negli ultimi tre mesi si siano verificate tre condizioni: una giacenza superiore ai 100mila euro; l’assenza di forme di finanziamento (mutui o altri crediti personali); l’assenza di investimenti in forme di risparmio o amministrato.
Alla base del preavviso di “sfratto” c’è un argomento noto da almeno un quinquennio. Da quando l’eurozona è interessata da una politica monetaria espansiva (“Quantitative easing”) e i tassi d’interesse sono virtualmente nulli, le banche non hanno più interesse a rifornirsi di “materia prima” presso i risparmiatori, anzi. Come ha ricordato Fineco (ma tempo fa lo avevano fatto in coro tutte le grandi banche italiane), i tassi di rifinanziamento sull’interbancario sono negativi e in ulteriore decrescita: la Bce e la Fed hanno infatti confermato che nella situazione di recessione da Covid la politica monetaria ultra-accomodante non cambierà. Quindi: per le banche aumenta il disincentivo a utilizzare la liquidità tenuta dai risparmiatori nei conti: giacenza che diventa – oggettivamente – onerosa per l’intermediario.
È probabile che Fineco – l’unica banca italiana di nuova generazione basata sul digitale e su una rete di consulenti – abbia colto l’occasione per una campagna di marketing molto aggressivo. La banca inventata e tuttora guidata da Alessandro Foti – resasi oggi completamente indipendente da UniCredit – è molto ricercata per la qualità e l’efficienza dei suoi servizi online (non a caso è oggi relativamente più apprezzata in Borsa delle sue concorrenti tradizionali). Ma la sua missione principale è offrire servizi di finanza personale: soprattutto asset management e private banking, oltre al brokeraggio di mercato. I servizi di pagamento non sono il suo “core business” (non lo sono ormai più per nessuna banca italiana e forse europea, tutte sotto pressione globali dai giganti digitali).
Fineco vuole/deve vendere fondi comuni e altri strumenti di consulenza e gestione del risparmio, oltre a erogare finanziamenti personali. Due segmenti che la pandemia ha fortemente rallentato: gli italiani hanno comprensibilmente aumentato le proprie riserve precauzionali di risparmio liquido, forzati anche dall’impossibilità fisica di consumare. Le banche italiane tradizionali – che ancora operano su una pluralità canali fisici e online – non sono in una situazione migliore: la forte proiezione nell’attività creditizia verso le imprese è entrata in drastico “stand-by”. Anche la porzione portante del sistema bancario (Poste comprese) “non sa che farsene” di quasi 2mila miliardi dii tenuti fermi nei conti. I circoli viziosi e paradossali tendono quindi ad aumentare. Il primo è di profilo pubblico, legale: particolarmente delicato.
Il Governo sta impostando da anni la lotta all’evasione fiscale attraverso il contrasto all’uso del contante e al virtuale obbligo di legge di detenere e muovere la propria liquidità attraverso canali bancari tracciabili. Soprattutto nel mezzo di voci permanenti di tassazione straordinaria patrimoniale, non sono pochi i risparmiatori-contribuenti che eviterebbero di tenere i propri quattrini in banca: ma prelevare contante (per custodirlo in casseforti private o cassette di sicurezza in banca) è programmaticamente limitato e disincentivato dai nuovi limiti anti-riciclaggio. Il risultato è che il sistema bancario – nuovamente – si lamenta coi suoi depositanti – peraltro in parte “obbligati” – per una situazione dei tassi “non dipendente dalla sfera decisionale della banca”: ma neppure dalla sfera decisionale di un risparmiatore altrettanto privato di una banca quotata in Borsa.
La questione più complessa e problematica resta però certamente quella sostanziale: gli italiani si mostrano tuttora quasi privi di fiducia di fronte all’eventualità di investire i propri risparmi, un vero “tesoro”. Dar loro torto pare difficile: a maggior ragione dopo che – negli ultimi giorni – Governi e grandi istituzioni europee hanno oggettivamente peggiorato il clima delle aspettative sulla campagna vaccinale e quindi della normalizzazione dell’economia. È d’altronde comprensibile che gli intermediari bancari – al centro fra risparmiatori e imprese – lancino l’allarme: assomigliano sempre più pericolosamente a biciclette abbandonate al “surplace”, comunque insostenibile nel medio periodo. Tuttavia il tonico per le attese di tutti – quelli che hanno soldi da investire e quelli che hanno investimenti da finanziare – si chiama solo ripresa: con un immancabile (anche se prevedibilmente lenta) rialzo dei tassi d’interesse.
Non sembra però impossibile immaginare parziali traiettorie di convergenza morbida (finanziaria, non fiscale) fra il risparmio privato che le banche private non vogliono più e i giganteschi fabbisogni pubblici creati dalle strategie Recovery. Nei percorsi di exit europea dalla pandemia (per l’Italia da una lunga fase economico-finanziaria “fuori parametro”) è possibile delineare istituti e strumenti che concilino due tendenze di lungo periodo: la probabile ricerca di redditività minima ma sostenibile per i risparmiatori e la necessità di Governi e Ue di finanziare sul mercato e in modo strutturato l’enorme indebitamento pubblico imposto dalla Recovery. Non è inverosimile che la chiamata di Mario Draghi a Premier italiano (cioè a importante capo di governo Ue) sia stata motivata anche dall’opportunità di avere a bordo un’esperienza autorevole, sia verso i poteri pubblici che verso i mercati.
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