La decisione del Governo di cedere una seconda tranche del capitale delle Poste ha acceso una polemica politica, nonostante l’impegno preventivo a mantenere allo Stato il controllo del gruppo. È giunta pronta – da parte della leader del Pd, Elly Schlein – l’accusa al Governo Meloni di “voler svendere asset strategici del Paese”. Ma, altrettanto immediatamente, Schlein si è ritrovata a contestare frontalmente – un trentennio dopo – le scelte di un altro leader del centrosinistra, lui pure bolognese e tuttora attivo.
Romano Prodi utilizzò la sua prima (unica vera) vittoria elettorale nel 1996 principalmente per “vendere” (o forse “svendere”, come in parte sostenne la stessa Corte dei Conti nel 2010) non una singola quota di minoranza di una singola società per qualche miliardo di euro del 2024, ma intere società: per il controvalore di molte decine di miliardi di euro negli anni ’90. Fra i gruppi dismessi in blocco spiccò Telecom – strategica per definizione ed eccellenza -, mentre le banche milanesi privatizzate dall’Iri (Comit e Credit) erano allora “di interesse nazionale” per legge. Autostrade, da canto suo, era talmente strategica che il Governo Conte-2 (con il Pd a bordo) decise di ristatalizzarla: venticinque anni dopo che l’Ulivo prodiano aveva ceduto “ad familiam” ai Benetton il monopolio pubblico dei pedaggi, in aumento ogni anno. I “nuovi capitalisti democratici” di Ponzano: inizialmente convinti che il Prodi-2, una decina d’anni dopo, avrebbe tacitamente consentito loro di rivendere le Autostrade al gruppo spagnolo Abertis. I Benetton: fan della prima ora delle “sardine” bolognesi, il “popolo di Elly”.
La stagione delle grandi privatizzazioni italiane ebbe alla base gli impegni assunti presso la Commissione Ue da Beniamino Andreatta (un altro big della “scuola di Bologna”), ministro degli Esteri del Governo Ciampi (l’ultimo della Prima Repubblica), poi fra i padri dell’Ulivo prodiano. L’ingresso dell’Italia nell’euro venne da subito subordinato alla riduzione dei debiti (a tutti gli effetti statali) accumulati dall’Iri, la principale holding pubblica, per due volte presieduta dallo stesso Prodi. Oggi al Governo Meloni viene contestato lo stesso intento entro lo stesso vincolo europeo. E la possibilità di manovra odierna è enormemente più limitata nel portafoglio residuo delle partecipazioni statali; mentre il rapporto debito/Pil italiano è forse più gravemente fuori controllo degli anni ’90 rispetto ai parametri di stabilità finanziaria Ue. E questo avviene dopo un decennio di Governi a sostanziale guida Pd e dopo che lo Stato ha dovuto sborsare altri miliardi di euro per tamponare il più grave dissesto bancario nazionale: quello di Mps, inequivocabilmente ascrivibile alla gestione politica della sinistra.
Qualcuno potrebbe sfidare ora – forse non a torto – il Governo di destra-centro ad avviare alla privatizzazione il gruppo Ferrovie dello Stato: facendo sponda fra l’altro con il Pnrr. Ma su questi binari lo statalismo endemico di Fi e quello ritrovato dal Pd di Schlein sembrano marciare in parallelo. E per Giorgia Meloni e i suoi ministri – in euro-campagna elettorale – sembra già alto l’impegno a rassicurare i sindacati dei 120mila dipendenti del gruppo Poste (sono peraltro gli stessi che non stanno battendo ciglio di fronte alla definitiva de-italianizzazione di Fiat/Stellantis).
La mossa privatizzatoria del Governo sembra invece mettere sotto pressione i grandi Comuni ancora azionisti di controllo delle grandi utilities: già in parte collocate in Borsa e oggetto di aggregazioni.
Il Comune di Milano è ancora – con quello di Brescia, entrambi amministrati dal centro-sinistra – co-azionista di controllo di A2A. I due pacchetti del 25% – a prezzi di Borsa correnti – valgono assieme 2,7 miliardi (al netto di un’eventuale prezzo di maggioranza). Perché, anzitutto, palazzo Marino non ne colloca una parte, invece di lamentare il taglio dei trasferimenti statali? Milano – come centinaia di altre amministrazioni – potrebbe cessare di esasperare i cittadini con gli autovelox, spacciati per “transizione ecologica”. E potrebbe provare a sforbiciare i tributi locali, regolarmente sui massimi e ormai simili a una patrimoniale sulla casa.
Ciò che vale per A2A si può ripetere per Hera (4,8 miliardi) e le municipalità azioniste (45%) nella regione in cui Stefano Bonaccini è tuttora governatore e Schlein è stata vice-governatrice. Si può dire per Acea (3 miliardi) e il Comune di Roma di Roberto Gualtieri: che ne detiene il 51% ma sollecita o pietisce da sempre salvataggi statali a piè di lista via “leggi per Roma capitale”, grandi eventi assortiti, finanziamenti ad hoc della Cdp. Per Iren, dove due sindaci di centrosinistra, quelli di Torino e Parma, siedono al tavolo proprietario con quello di Genova.
Se i leader “dem” odierni pretendono di contestare le (mini)privatizzazioni del Governo Meloni devono giustificare quelle che non hanno il coraggio di fare; e devono abiurare pubblicamente quelle maxi firmate dai premier Carlo Azeglio Ciampi e Prodi. E dal Firettore generale del Tesoro Mario Draghi.
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