Il rendimento del decennale americano ieri ha chiuso vicino ai massimi degli ultimi dodici mesi; comprare un’obbligazione statale americana a dieci anni rende il 4,6% mentre solo tre mesi fa il rendimento era del 3,6%. La maggior parte dei membri della Fed si attende per l’anno prossimo due tagli dei tassi contro i quattro attesi a settembre; l’inflazione nel 2025 è attesa al 2,5% contro il 2,2% atteso in precedenza. La Fed incorpora nelle proprie decisioni i possibili sviluppi dell’economia tentando in qualche modo di giocare d’anticipo.
A poche settimane dall’insediamento di Trump, oggi ancora “President-elect”, si specula sulla politica economica del candidato repubblicano al di là delle promesse elettorali e delle provocazioni di queste settimane che riflettono una fase negoziale. Nessuno sa con precisione quanti e quali saranno i dazi, né quale sarà la stretta sull’immigrazione, né dove si spingeranno gli stimoli fiscali. Quello che si sa con certezza è che queste azioni sono potenzialmente inflattive e questo è quindi noto anche a Powell e al resto dei membri della Fed. Più la Fed stringe la politica monetaria e meno scendono i tassi, o salgono, più è difficile per i mercati continuare a salire come è accaduto finora. Se i mercati non salgono e iniziano a scendere rischia di interrompersi uno dei motori che ha finora garantito la tenuta dei consumi americani nonostante i rialzi dei prezzi. Gli americani sono molto più investiti in borsa rispetto agli europei e la salita delle quotazioni alimenta l’effetto ricchezza.
Il piano di Trump di introdurre i dazi per supportare il sistema produttivo americano può funzionare solo se tengono i consumi. Il circolo virtuoso a cui si vuole dar vita è quello di controbilanciare l’aumento dei prezzi che i dazi comportano con un aumento dell’occupazione e dei salari a valle della rinascita industriale a stelle e strisce. Invece, se i prezzi salgono ma gli americani hanno gli stessi salari di prima o perfino inferiori si alimenta un circolo vizioso. Trump vuole ribilanciare l’economia americana facendo scendere la componente dei consumi a favore di quella degli investimenti e della produzione; il programma funziona se il risultato di questo cambiamento comporta “un Pil più alto”. Scendono i consumi in proporzione del Pil, ma salendo il Pil la quantità non cambia.
Se la Fed imposta la propria politica monetaria per combattere l’inflazione, per farla scendere al 2%, agendo in anticipo rispetto ai timori di una sua possibile risalita e prima che i piani di rilancio industriale di Trump abbiano effetto, il rischio è un cortocircuito sui mercati. Trump e Powell sembrano su una traiettoria di conflitto in cui il primo cercherà di imporre al secondo una politica monetaria espansiva o sufficientemente tale da supportare i mercati. Al primo segnale di difficoltà sugli indici, magari proprio in conseguenza di attese “peggiori” sui tassi, il dito verrà puntato sul Presidente della Fed. Trump, infatti, non può permettersi che si inneschi un circolo vizioso in cui dazi e mercati che scendono erodono i consumi americani.
Nel 2019 Trump chiedeva ai follower su Twitter se il loro più grande nemico fosse Powell o il Presidente cinese Xi; era fine agosto e i mercati nei mesi precedenti avevano dato un paio di segnali di debolezza prima di aprire un rally nell’ultimo trimestre dell’anno. Due mesi dopo, per la cronaca, arrivava il Covid a sconvolgere lo scenario economico e politico e una riconferma di Trump che fino a quel momento sembrava pressoché certa. Un conflitto tra presidenza e Federal Reserve è quindi uno degli scenari possibili del 2025; è una disputa che il Presidente vorrà con ogni probabilità risolvere all’inizio del mandato forte del supporto popolare.
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