“Ribelli per amore” è il titolo di un libro di pochi anni fa che racconta la drammatica ed esaltante esperienza dei partigiani cattolici. Quell’esperienza, ormai lontana nel tempo, ci aiuta a capire meglio il significato di un pensiero che papa Francesco, in linea coi suoi predecessori, ha sviluppato nel corso degli ultimi anni: non c’è pace senza giustizia, ma non c’è giustizia senza misericordia.
Possiamo immaginare il tormento dei cattolici che decisero di entrare nella resistenza. Molti si saranno chiesti: è giusto battersi per la libertà fino a sparare e uccidere? Alcuni decisero di combattere rinunciando a utilizzare le armi, fornendo un puro supporto logistico, ma tutti lottarono per difendere o riconquistare la libertà, evitando di cadere nella trappola dell’odio e distinguendo tra chi aveva voluto la guerra e chi la subiva. Quell’esperienza ci mostra che non può esserci pace senza giustizia, ma che può, e anzi deve esserci, una giustizia senza odio, che guarda oltre la guerra per ristabilire relazioni di pace e amicizia tra i popoli, una giustizia carica di misericordia.
Oggi viviamo un analogo tormento per una guerra esplosa nella nostra Europa e ci chiediamo: è giusto sostenere la resistenza ucraina anche con l’invio di armi? Come può il prolungarsi della guerra preparare la pace? Non sarebbe meglio che Italia e Europa assumessero una posizione di neutrale equidistanza candidandosi a svolgere solo un ruolo di mediazione?
In alcuni momenti, sembra che l’unica, possibile e radicale, alternativa sia tra pacifisti neutrali e guerrafondai interventisti. Eppure dev’esserci un modo per contribuire a una pace giusta e misericordiosa.
Mi sono chiesto cosa può fare l’Italia per la pace e, ovviamente, non mi sfiora neppure la pretesa di saper rispondere. Vorrei solo portare alcuni frammenti di riflessione riguardanti l’economia, nella speranza che altri, più competenti nella difficile arte della diplomazia, possano riprenderli e svilupparli perché l’economia è comunque uno strumento di pace o di guerra.
Dal punto di vista economico, la guerra in Ucraina è un profondo e asimmetrico shock negativo dell’offerta. È uno shock negativo dell’offerta nel senso che spezza, in punti nevralgici, la catena globale del valore attraverso cui i Paesi si scambiano, reciprocamente, beni e servizi. Bastano due esempi, ormai noti. L’Italia importa dalla Russia circa il 35% del gas di cui ha bisogno e acquista, sia dalla Russia che dall’Ucraina, ingenti quantitativi di grano, mais, semi oleosi e fertilizzanti che nutrono l’intera filiera agroalimentare. Lo shock è asimmetrico perché colpisce l’Europa più di altre aree del mondo e quindi riduce la competitività del nostro Paese e dell’intero Vecchio continente rispetto ai tradizionali partner.
Le conseguenze economiche della guerra si riassumono in una parola, anch’essa tristemente nota in un passato che pensavamo ormai sepolto: stagflazione. Lo shock negativo dell’offerta innalza l’inflazione e contrae la produzione e, con essa, l’occupazione. Il Centro Studi della Confindustria ha stimato un aumento complessivo del costo dell’energia per le imprese italiane pari a 68 miliardi di euro su base annua: un’enormità. La stessa Confindustria valuta che, finora, le imprese, per assorbire i costi, hanno preferito ridurre i profitti anziché aumentare i prezzi. Ciò nonostante, l’inflazione, di cui avevamo perso le tracce, viaggia ora verso il 7%. E, senza la pace, sarebbe solo l’inizio con un generalizzato aggravio dei costi associato alla frantumazione delle catene globali del valore.
L’inflazione, erodendo il potere d’acquisto di salari, pensioni e risparmi, colpisce la stragrande maggioranza della popolazione. Poi, alimentando l’incertezza, danneggia l’intera economia inducendo le famiglie a consumare meno e le imprese a rinviare le decisioni di investimento. Nei conti correnti delle banche italiane si sono accumulati 1.831 miliardi di euro, una cifra superiore al Pil, che, da un lato perdono progressivamente valore e, dall’altro, sono come sterilizzati perché non vanno a finanziare gli investimenti produttivi delle imprese: sono semplicemente sottratti al circuito della spesa.
Infine, vi sono i costi diretti della guerra. Si calcolano già, a guerra in corso, gli oneri della (doverosa) assistenza a milioni di profughi e i prevedibili, ingenti costi della futura ricostruzione. È apprezzabile che, al momento, nessuno abbia tentato di valutare il valore economico della perdita di vite umane perché ogni persona ha un valore infinito.
La guerra, insomma, anche dal punto di vista economico, è una devastante e niente affatto bomba intelligente che colpisce tutti, tranne i pochi e potenti fabbricanti di morte.
L’Italia, da sola, può fare poco, ma, come autorevole membro dell’Unione europea, potrebbe avanzare una proposta di politica economica per la pace. L’Europa, senza inasprire le sanzioni economiche, né minacciare di farlo, continuando a restare al fianco dell’Ucraina, anche col supporto militare, presenti una proposta complessiva di accordo che preveda la ripresa dei negoziati, intrapresi da tempo, e ora interrotti, sia con l’Ucraina che con la Russia.
Meno di un anno fa, nel giugno 2021, Putin auspicava il ripristino di un partenariato tra Unione europea e Russia. Si riprenda l’accordo di partenariato e cooperazione interrotto nel 2014 e si avanzi una proposta che contempli, ovviamente in cambio di adeguate garanzie, lo sviluppo delle relazioni economiche evitando di spingere la Russia tra le braccia della Cina. Contestualmente, si potenzi l’accordo di associazione tra Europa e Ucraina, entrato in vigore il 1° settembre 2017, non per promettere l’immediata partecipazione dell’Ucraina all’Unione europea, impossibile per varie ragioni, ma per sperimentare nuove forme di associazione. Pochi giorni fa, Sergio Fabbrini, uno dei massimi esperti di questioni europee, scriveva che l’alternativa non può essere “dentro o fuori (l’Ue)” e suggeriva di ideare nuove forme di integrazione per un’Europa unita e differenziata. Quel momento è arrivato.
Resta l’intricato nodo di Crimea e Donbass ed entra in gioco il controverso principio di autodeterminazione. Putin sostiene che le popolazioni di quei territori, a larga maggioranza russofone, hanno espresso la chiara volontà di volersi ricongiungere con la madrepatria. Ma chi è titolare del diritto di autodeterminazione? Solitamente si risponde che è il popolo. Nella Conferenza di Pace di Parigi del 1919 il principio fu solennemente enunciato e applicato. Per recidere definitivamente le radici della guerra, si decise di ridisegnare la mappa dell’Europa nel tentativo di dare a ogni popolo il suo Stato. La speranza era che si sarebbero così estinte le ragioni che spingevano i popoli a combattersi per conquistare nuovi territori. Non andò così e si giunse al drammatico paradosso di Hitler che, in nome del principio di autodeterminazione, invase l’Europa orientale per unire il popolo tedesco.
Quali popoli hanno diritto all’autodeterminazione? Quello catalano? O quello lombardo? Eppure quando quei “popoli” hanno rivendicato o minacciato o solo ipotizzato una secessione sono intervenute le legittime autorità centrali per reprimere o prevenire quell’eventualità, e lo hanno fatto in nome della Costituzione e cioè del popolo legittimamente sovrano. Alla luce dell’esperienza storica, e di un’originale analisi teorica, Ludwig von Mises, uno dei grandi economisti del Novecento, sostenne che l’autodeterminazione è un diritto soggettivo, che appartiene alla singola persona: gli individui dovrebbero poter essere liberi di vivere e lavorare ovunque e gli Stati dovrebbero avvertire il dovere di assicurare a tutti i cittadini le quattro fondamentali libertà economiche relative alla circolazione di beni, servizi, persone e capitali. In particolare, le quattro libertà economiche avrebbero dovuto essere assicurate, attraverso la costituzione di una Unione liberale, nei territori dell’Europa centro-orientale popolata da disseminate minoranze linguistiche. Eppure anche la via di Mises è costellata di pericoli. Lo abbiamo visto con la Brexit, quando la patria della libertà si è rifiutata di riconoscere, anche ai fratelli europei, il diritto alla libera circolazione.
Il principio di autodeterminazione, almeno fino a oggi, è regolato dagli Stati nazionali e spetta all’Ucraina decidere se riconoscere o meno l’autonomia di Crimea e Donbass. Il punto è che un’Europa al fianco degli aggrediti ma protesa a ricercare una mediazione ha maggiori probabilità di fermare la guerra, convincere Russia e Ucraina a trattare e avviare negoziati di pace. L’Italia può essere il motore di un’Europa che persegue una pace giusta tesa a ristabilire un’amicizia tra i popoli.
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