Martedì scorso i computer della Japan Bond Trading Company sono rimasti inoperosi. Nessuno ha bussato ai terminali della società che, per conto del Tesoro giapponese, gestisce le operazioni di acquisto e di vendita sul secondo debito pubblico del pianeta. Per la prima volta non ci sono stati scambi sul J bond a dieci anni. È la conferma del clima che si respira sul fronte dei titoli del debito, precipitati verso il basso: nessuno compra, ma nessuno vende. Un po’ per paura, un po’ per non perdere l’eventuale rimbalzo dei titoli. E così, com’è successo al decennale giapponese, i rendimenti scendono ancor di più sotto lo zero.
Il fenomeno è diffuso un po’ ovunque, anche se le punte estreme riguardano, oltre al Giappone, i titoli dell’Eurozona, almeno quelli del Nord: più di 16.500 miliardi di bond emessi dai Paesi avanzati oggi trattano sotto lo zero, in forte ascesa rispetto ai 12.000 miliardi di dollari di dicembre. Con effetti paradossali: il Bund decennale tedesco, punto di riferimento per l’intera Eurozona, tratta a -0,5032%, ai minimi da gennaio. Ma tutta la curva dei tassi di Berlino, compreso il trentennale, è in terreno negativo. Stesso copione per la Francia, negativa fino alle emissioni del 2033 o per la Spagna, con il decennale sottozero. Perfino l’Italia e la Grecia, i due fanalini di coda dell’Eurozona, partecipano al fenomeno: per avere un pur minuscolo interesse bisogna rivolgersi alle emissioni a sette anni. Il decennale del Tesoro italiano, così popolare tra i gestori per il rendimento positivo, tratta poco sopra lo 0,50%.
Che cosa significano i rendimenti obbligazionari così bassi? Che senso hanno rendimenti reali così profondamente negativi da dover risalire al 1946-47 e al 1972-74 per trovare dei precedenti? Per le Cassandre è il segale che la ripresa si va spegnendo. Probabilmente, però, il fenomeno è l’effetto provocato dall’eccesso di risparmio delle famiglie rispetto all’offerta di investimenti ai tempi del Covid, ma anche dell’azione delle banche centrali decise, come avvenne nel dopoguerra, a sostenere la crescita dell’economia come arma efficace per ridurre il peso dei debiti contratti per affrontare la pandemia. Allora, tra il ’45 e i primi anni Cinquanta, l’operazione riuscì: grazie a tassi di sviluppo ben superiori al servizio del debito e al significativo contributo dei piani straordinari (il forte aiuto alla Germania in primis), le finanze pubbliche dell’Occidente si rimisero in sesto rapidamente come non era successo alla fine della Prima guerra mondiale.
È possibile che la storia si ripeta. Il sensibile aiuto provocato dal calo degli interessi sul debito si sta per combinare con l’arrivo dei primi fondi (25 miliardi) da Bruxelles per far decollare i piani di sviluppo concordati con la Comunità europea. L’importante è che si capisca che denaro meno caro non vuol dire denaro più facile. Anzi. Da Washington arrivano i primi segnali sulla correzione di rotta prevista per il 2023.
Di sicuro, però, i risparmiatori italiani dovranno dire addio al Btp, lo strumento prediletto da generazioni di famiglie. Che fare? Si possono trovare alcuni palliativi (vedi le emissioni inflation linked) dai rendimenti comunque modesti, o sperare in un risveglio del mercato immobiliare (mica facile in un Paese dalla demografia che tende verso la crescita zero con una popolazione che invecchia). Forse è arrivato il momento di suggerire all’esecutivo la creazione di strumenti in grado di incentivare il risparmio a medio-lungo termine magari attraverso incentivi fiscali e la tutela di regole in grado di confortare quei risparmiatori che non sono in grado di leggere un prospetto. Altrimenti il pericolo è che la caccia al rendimento provochi molte vittime.
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