Mentre la Commissione europea ha rivisto al ribasso le stime sul Pil dell’Italia, che quest’anno dovrebbe scendere dell’11,2%, il Governo ha approvato, insieme al decreto semplificazioni, il Programma nazionale di riforma, nel quale si parla di migliorare il saldo primario di bilancio, così da ridurre il debito pubblico che allarma l’Ue, pronta a ripristinare il Patto di stabilità e crescita, attualmente sospeso, in tempi relativamente brevi. Inoltre, nel documento si parla di fabbisogno del sistema sanitario pari a 32 miliardi di euro, una cifra vicina ai 36 miliardi che potrebbero arrivare via Mes. Come ha spiegato Pier Paolo Baretta in un’intervista al Foglio, “la coincidenza non è certo casuale, e dà il segno di una scelta irrinunciabile”. Le parole del sottosegretario all’Economia, secondo Domenico Lombardi, ex consigliere economico del Fmi, sono un’ulteriore prova di «un’accelerazione del dibattito sul Mes che lascia presumere la decisione di farvi ricorso a breve. Ormai il dibattito è stato talmente politicizzato che si è creato un “partito del Mes” che intende portare l’Italia a chiedere un prestito senza spiegare adeguatamente tutte le implicazioni del caso e soffermandosi su alcuni aspetti che hanno chiaramente una certa presa sull’opinione pubblica, come il basso tasso di interesse da corrispondere».
Intanto resta il problema di un crollo del Pil che amplifica la salita del debito pubblico. Problema che un ricorso al Mes non risolverebbe…
Assolutamente no. L’Italia sconta un grosso problema di crescita che era già emerso da alcuni anni, ma che ora è diventato più evidente. Il crollo del Pil di quest’anno va ad aggiungersi a una crescita che era già di per sé asfittica. Questo caratterizza la situazione italiana in modo specifico rispetto ad altri Paesi europei che pure stanno subendo un contraccolpo economico dalla pandemia, ma che partivano da posizioni ben diverse. Piuttosto quindi che parlare del Mes ci sarebbe bisogno di concentrare le energie sulle politiche di crescita necessarie a questo Paese.
Anche perché la priorità non deve essere tagliare il debito a prescindere, ma fare in modo che ci siano politiche per la crescita, che sono mancate anche in questi mesi.
Esattamente. Questa è la priorità, le vera emergenza del Paese. Rispetto a questo bisognerebbe quindi formulare una strategia complessiva e poi a valle andare a vedere quali sono le opzioni di finanziamento. Invece si è fatto il contrario, andando tra l’altro verso fonti di finanziamento che in qualche modo vincolano le politiche da mettere in campo, stante il fatto che il prestito Mes sarebbe legato all’emergenza Covid e non utilizzabile a proprio piacimento.
Eppure, come dimostrano le parole di Baretta, gran parte della maggioranza e del Governo ritiene che ricorrere al Mes sia una scelta irrinunciabile.
Tutto questo rafforza l’impressione che questa sia una decisione presa mesi fa e che si stia semplicemente aspettando il momento opportuno per poterla concretizzare, in base a valutazioni tattiche, così da arrivare all’attimo politicamente più appropriato per poterla annunciare.
Secondo lei, da quanto tempo questa decisione sarebbe stata già presa?
Nel momento in cui è emersa l’emergenza pandemica, come si è potuto registrare dalle dichiarazioni di esponenti delle istituzioni europee o di altri Paesi membri dell’Unione, è stato introdotto questo nuovo strumento del Mes sanitario per rispondere alle esigenze espresse dall’Italia. Questo fa supporre che già prima, difficile dire da quando, ci fosse una decisione sul ricorso a questo prestito. Il fatto che ancora questo ricorso non si sia concretizzato è forse legato a dei tatticismi politici, anche perché una parte delle forze di maggioranza non è ancora convinta.
Negli ultimi giorni si sono susseguite dichiarazioni di esponenti delle istituzioni europee, e dello stesso Mes, circa la convenienza per l’Italia a ricorrere a questo prestito che avrebbe addirittura tassi negativi.
Innanzitutto il costo di questo prestito, come di ogni prestito in generale, può essere competitivo quanto si vuole, ma spetta al Paese in questione richiederlo. Bisogna quindi rispettare quella che è la “ownership” del Paese, le sue decisioni. Detto questo, il costo è un elemento importante, che però va rappresentato in modo corretto. Per esempio, ricordando che il prestito del Mes gode di uno stato di “seniority” che lo rende diverso diverso dagli altri. È come se ci si recasse in banca a chiedere un prestito ipotecario: chiaramente costerebbe di meno di un normale finanziamento, ma la banca può anche portarti via la casa se non viene rimborsata. Un altro aspetto di non poco conto è che non si è visto alcun documento sulle riforme della sanità che si vorrebbero finanziare con le risorse del Mes. E poi quando si richiede un prestito internazionale c’è un elemento importante da tener presente.
Quale?
Lo stigma. In altre parole, se l’Italia fosse il solo Paese a richiedere il Mes, questa scelta potrebbe essere stigmatizzata dai mercati. A oggi mi risulta che solo Cipro abbia chiesto di ricorrere al Mes, mentre Francia, Spagna, Grecia, Portogallo non sono interessati. Evidentemente per qualche motivo.
Chi sostiene sia opportuno ricorrere al Mes evidenzia che Cipro, dopo la sua scelta, ha visto ridotto il suo spread, quindi non c’è stato alcuno stigma, e che altri Paesi, come Francia, Spagna e Portogallo, a differenza nostra, riescono a finanziarsi sul mercato a tassi vicini a quelli del Mes e per questo non ne hanno bisogno.
Cipro era già entrata in un programma Mes attraverso il quale ha dovuto metter in atto una pesante ristrutturazione dei bilanci delle sue banche: questo è un dato da non dimenticare. Per quanto riguarda gli altri Paesi europei, il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire, in un’intervista pubblicata da Repubblica a fine maggio, ha detto che il Mes è stato creato per i Paesi in difficoltà e che hanno problemi con i mercati, ma la Francia non è in difficoltà, ha un ottimo rapporto con i mercati, invece l’Italia no.
Lei ci ha già parlato della proposta che ha messo a punto insieme all’ex segretario al Tesoro britannico Jim O’Neill che potrebbe portare all’Italia 200 miliardi di euro sfruttando l’emissione dei Diritti speciali di prelievo (Dsp) da parte del Fondo monetario internazionale. Fare ricorso a questi strumenti non avrebbe un effetto stigma?
Assolutamente no, perché i Dsp sono frutto di un processo multilaterale e vengono erogati a tutti i Paesi membri del Fmi. Quindi non ci può essere quel problema di stigma che si avrebbe essendo gli unici, Cipro a parte che non può però fare testo, a ricorrere al Mes. I Dsp inoltre non costano nulla, quindi sono ancora più convenienti del Mes e non hanno sicuramente condizionalità.
Di solito però le risorse che arrivano dal Fondo monetario internazionale sono accompagnate da condizionalità, l’abbiamo visto in Grecia…
Distinguiamo bene. Una cosa è chiedere un prestito al Fmi, dove possono esserci condizionalità, un’altra è attivare i Dsp, che non hanno condizionalità, sono un’altra cosa. I Diritti speciali di prelievo sono delle attività di riserva create nel 1969 per generare liquidità internazionale. Sono allocati gratuitamente ai Paesi sovrani membri del Fmi in via permanente e senza alcuna condizionalità. L’intervento del Fondo in Grecia non ha nulla a che vedere con i Dsp. Il punto vero è che stiamo discutendo da mesi su un prestito a interesse ridotto e su cui non c’è chiarezza circa le condizionalità, mentre non si prende in considerazione uno strumento a costo zero e chiaramente senza condizionalità.
Se però, come ha detto lei, i Dsp richiedono una multilateralità, vuol dire che non può essere l’Italia da sola a chiederne l’emissione.
Occorre che l’emissione venga approvata dall’85% dell’azionariato del Fmi, rappresentato dai suoi 189 Paesi membri, tra i quali l’Italia che dispone del 3,17% del capitale.
C’è la possibilità che per un bisogno dell’Italia si possa trovare una cosa ampia maggioranza?
Guardi, innanzitutto non è un bisogno solo dell’Italia, perché i Dsp rappresentano liquidità internazionale di cui si avvantaggerebbero tutti i Paesi del Fmi, anche quelli che votassero contro. Alcuni Paesi del Nord Europa, in particolare la Germania, hanno sempre paventato il potenziale inflazionistico dei Dsp dovuto alla creazione di nuova liquidità. Il problema però oggi è la deflazione, tanto che la Bce non riesce a centrare il target del 2% sul costo del denaro. Quindi questa preoccupazione, che in altri contesti storici poteva essere comprensibile, oggi sicuramente viene meno. Gli Usa, avendo il dollaro, chiaramente sentono meno l’esigenza di creare liquidità internazionale al di fuori del canale della loro valuta. Gli altri membri del Fmi, Paesi emergenti o in via di sviluppo, non potrebbero che plaudere all’emissione di nuovi Dsp.
L’importante allora sarebbe convincere gli Stati Uniti.
Sì, anche perché con la loro quota del 17,45% hanno una sorta di veto su questa votazione. Gli Stati Uniti però ora sono in una posizione di debolezza, stanno anche loro soffrendo gli effetti del coronavirus e le presidenziali non sarebbero un ostacolo, anche perché avrebbero più benefici rispetto agli altri Paesi. Comunque dato che già in passato ci sono state emissioni di Dsp, ovviamente con il voto favorevole degli Usa, non si vede perché oggi non ci si possa neanche provare.
Ha detto che in passato ci sono state già emissioni di Dsp. Quando?
Ci sono state quattro emissioni, la prima all’inizio degli anni Settanta, l’ultima nel 2009, pari a circa 161 miliardi di Dsp equivalenti a circa 200 miliardi di euro di cui l’Italia ha beneficiato in ragione della propria quota per circa 6 miliardi. Nessuno si è mai preoccupato di dire che non andavano accettati. Naturalmente con questo non sto dicendo che emettendo Dsp si risolverebbero tutti i problemi che abbiamo, ma si tratta di uno strumento importante, soprattutto nel contesto di un’assenza di finanziamenti adeguati rispetto ai bisogni che abbiamo. Cosa che si può dire anche per altri Paesi.
C’è però il fattore tempo da non trascurare. I soldi del Mes sembrano essere lì pronti e solo da prendere. Quanto tempo ci vorrebbe invece per l’emissione di nuovi Dsp?
Guardi, nel 2009 ci sono voluti pochi mesi per raccogliere i voti necessari e c’è da presumere che, nel contesto dell’attuale emergenza, i tempi possano essere ancora più brevi. Certo se non si comincia mai… Non vorrei però che passasse l’idea, in questo generale entusiasmo europeista malcelato, che i fondi europei si attivano in un giorno, mentre per gli altri c’è bisogno di mesi. Non è così, tanto che ancora oggi non sappiamo quando arriverebbero i soldi del Recovery fund.
(Lorenzo Torrisi)