Come spenderà l’Italia i 209 miliardi di euro erogati dal fondo europeo per la ripresa? Un ammontare enorme che nessun Paese ha mai ottenuto, nemmeno con il piano Marshall del secondo dopoguerra. E chi li spenderà, questo o un altro Governo? Se la destra vincerà le elezioni regionali sopravviverà Giuseppe Conte? E l’alleanza tra Pd e M5S? Queste domande rivolgeva giorni fa l’Ambasciatore di un Paese frugale desideroso di entrare nei labirinti della politica italiana.
Nell’analizzare la Germania, la Francia, la stessa Spagna si può essere aiutati da alcune costanti, ma in Italia che cos’è costante? Sono tutti interrogativi cruciali ai quali è difficile rispondere. Il Governo non ha ancora presentato un piano per la ripresa, ha annunciato più volte tante buone intenzioni e alcune anche meno buone, ma i capitoli sono tutti da scrivere. In teoria c’è tempo, il Next Generation Eu prenderà il via nella prossima primavera, tuttavia il giudizio su quel che si intende fare e su come realizzarlo si forma già oggi.
L’Ambasciatore insiste: l’Italia userà quei miliardi per investimenti e riforme o per distribuzioni assistenziali? Da qui dipende la valutazione della Commissione Ue, dei partner europei, dei mercati, ma anche degli elettori italiani. La convinzione che i bonus producono consenso è un’illusione, basti guardare all’esito del reddito di cittadinanza, del resto se non c’è lavoro e non c’è crescita. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri propone che il Patto di stabilità non venga ripristinato finché non sarà raggiunto lo stesso prodotto lordo pre-pandemia. Un criterio di buon senso, ma il problema è che nel 2019, prima che scoppiasse il Covid-19, l’Italia non aveva ancora recuperato il livello del Pil del 2008, cioè di quando è scoppiata la crisi finanziaria. È stato un decennio perduto che s’aggiunge a un lungo periodo di crescita debole e di semi-stagnazione.
Secondo la Banca d’Italia, se tutto andasse per il meglio, potremmo avere un’espansione di circa lo 0,6% all’anno del tutto insufficiente a invertire una tendenza negativa che dura da troppo tempo, accentuata da una depressione demografica che non sarà possibile invertire a breve periodo. Le cifre attorno alle quali lavora Gualtieri per l’aggiornamento al Documento di economia e finanza da presentare entro il 27 del mese dicono che quest’anno il prodotto lordo scenderà dell’8-9% come già stimato e l’anno prossimo crescerà del 4-6%, dunque saranno perduti tra 3 e 4 punti di Pil in un biennio, nonostante l’iniezione di 100 miliardi di euro in deficit. Aggiungiamo che l’Italia era già l’unico Paese europeo con un reddito pro capite inferiore a quello di dieci anni prima.
Ciò dipende direttamente dalla produttività, quella del lavoro e quella dell’intero sistema, ma l’aumento della produttività non è una priorità del Governo. Tra le riforme delle quali si parla manca quella del mercato del lavoro che resta cruciale. E manca perché una parte dell’esecutivo, non solo tra i cinquestelle, ma nel Pd, vorrebbe ripristinare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e s’illude di poter prolungare sine die il blocco dei licenziamenti.
Le prime indiscrezioni pubblicate dalla Repubblica parlano di una manovra da 25-30 miliardi per il 2021. Circa 10-15 miliardi sarebbero “caricati” sul Recovery fund: soprattutto investimenti del ministero dei Trasporti e dello Sviluppo, partite di spesa da finanziare o già previste (sostituendo la copertura attuale con i fondi europei), come Industria 4.0 (3 miliardi); superbonus ecologico al 110% (2 miliardi), decontribuzione per il Sud (5 miliardi). Più 5 miliardi per un primo taglio delle aliquote Irpef che aprirà la strada alla riforma fiscale. I restanti 15 miliardi serviranno per spese incomprimibili e misure sociali non rinviabili: pensioni (Ape sociale), Università, scuola, cultura. Insomma, tutto all’insegna della continuità, come prima peggio di prima. E le riforme?
Il come spendere le risorse ci porta non solo all’elenco delle priorità, ma anche ai criteri della spesa. L’idea che si possa scialacquare è del tutto infondata. È vero che il Patto di stabilità andrebbe rivisto da cima a fondo, ma nel frattempo valgono comunque le linee guida dell’Unione europea. Il dibattito politico sembra aver dimenticato che esistono compatibilità che precedono il Covid-19: la pandemia le ha rese semmai più stringenti. Tra queste un debito pubblico che è al 158-159%. Governo, partiti, parti sociali contano sui grants, cioè i 44,7 miliardi di euro a fondo perduto che il fondo per la ripresa garantisce per il biennio 2021-2022. Dovrebbero servire ad alleggerire i conti pubblici e allentare i lacci del deficit e del debito. La pericolosa illusione è usarli per la spesa pubblica corrente, quella giudicata intoccabile e incomprimibile per ragioni di consenso politico, e non per gli investimenti che stimolano la crescita.
Se così, l’Italia non dovrà convincere gli Ambasciatori dei Paesi frugali, ma i risparmiatori che prestano i soldi al Tesoro. Ed essi, come la storia ha dimostrato, sono meno malleabili dei diplomatici. Per questo è necessario che alle domande su chi spende e come si spende venga data una risposta chiara da un Governo serio, duraturo, unito, che abbia un ampio consenso, guidato da una personalità nella quale si possano riconoscere gli elettori italiani e i partner stranieri. Una risposta che, comunque vadano, non verrà dalle elezioni regionali e nemmeno dalla vittoria del sì o del no al referendum.
Da domani, insomma, torniamo alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca.