Quando alcuni giorni fa l’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, ha ventilato il possibile disimpegno dell’istituto dal suo ruolo storico di azionista di riferimento delle Generali, è parso compiere un passo dirompente, mentre è andato in realtà a confermare quanto già dichiarato più volte negli ultimi anni.
È infatti lontana l’epoca in cui Mediobanca aveva un’influenza pesante sulle decisioni della compagnia, spesso “convincendola” a partecipare a tutte le partite del capitalismo italiano in cui era coinvolto l’istituto milanese. Questo malgrado Enrico Cuccia, storico patron della banca milanese, non avesse mai imposto a Trieste amministratori delegati estranei alla scuola interna della compagnia: e finché è stato vivo lui anche i presidenti delle Generali sono stati selezionati fra i senatori del gruppo.
Dopo la scomparsa di Cuccia e l’uscita di scena del delfino Vincenzo Maranghi, l’amministratore delegato di Mediobanca Nagel ha imposto un cambio di rotta, più in linea con la trasparenza imposta dalle regole del mercato, che negli anni rendono molto più difficile il capitalismo dei salotti buoni.
Così grazie anche all’appoggio di Mediobanca, nella stanza dei bottoni del Leone Ceo sono arrivati manager dal solidissimo curriculum finanziario e assicurativo: come Mario Greco oppure lo stesso Philippe Donnet, al timone dal 2016, non prima di un rodaggio triennale come country manager per l’Italia.
In questa prospettiva la mossa di Mediobanca è parsa voler riaffermare una fondamentale “regola del gioco” al tavolo nuovamente aperto per il controllo delle Generali. La compagnia ha sempre avuto azionisti di riferimento, questi sono cambiati più volte in quasi due secoli, e non sarebbe affatto innaturale e sorprendente che gli assetti mutassero ancora. Ma una proprietà che varcasse i confini dell’alta sorveglianza tramite un Cda di alto profilo su un management qualificato e indipendente – che in quanto tale opera per lo sviluppo del gruppo e di tutti i suoi azionisti – potrebbe mettere a rischio un track-score che raramente ha tradito le attese dei mercati.
Lo stesso bilancio 2024 – appena approvato dal Cda presieduto da Andrea Sironi – ribadisce tendenze di lungo periodo: l’utile netto normalizzato è aumentato del 5,4% a 3,77 miliardi di euro quando il consensus degli analisti indicava un’aspettativa di 3,76 miliardi di euro. E anche il dividendo (1,43 euro) è quello promesso dal top management al mercato, mentre tutti gli highlights del consuntivo sono in crescita: premi lordi, margini operativi, consistenza patrimoniale. Le cifre sono in crescita anche nel master-plan bussola per i prossimi tre anni.
Il 24 aprile del 2024 il titolo era a 23 euro, undici mesi dopo è oltre 32 euro, sui massimi da cinque anni. C’è stato sicuramente un effetto-scalata: quello dei gruppi Delfin e Caltagirone – da anni in assedio attorno a Mediobanca (ultimamente anche con l’Ops di Mps) per conquistare a valle il controllo del Leone. Nelle ultime settimane si è aggiunto UniCredit, affacciatosi nel grande azionariato Generali con una quota iniziale del 5%. Né manca un’attenzione discreta ma costante da parte di Intesa Sanpaolo, soprattutto attraverso le gestioni di fondi, da sempre rilevanti nel parterre di Assogestioni, punto d’appoggio delle candidature indipendenti per il Cda all’assemblea del prossimo 24 aprile.
Sul mercato però resta sembra rimaner radicato un consenso di fondo: il valore di base riconosciuto dal mercato ai fondamentali economico-finanziari della compagnia e quello aggiunto dall’interesse dei grandi investitori non esisterebbe senza l’impegno quotidiano della struttura attuale, a sua volta costruito su quello dei management precedenti.
Se Mediobanca ha aperto a un qualche passo indietro dall’azionariato del Leone – può darsi nell’ambito di un riassetto domestico del settore bancassicurativo a tutela e promozione del risparmio – è perché intravede la possibilità che l’autonomia manageriale possa affermarsi anche senza la sua presenza. E il peggior torto che potrebbero fare i grandi azionisti a cavallo dell’assemblea sarebbe rendere le Generali a lungo ingovernabili.
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