Est modus in rebus, intercalavano spesso i professori del liceo del secolo scorso. Christine Lagarde, dopo il suo intervento periodico e programmato del 12 marzo scorso, rispondendo a una domanda in conferenza stampa, ha detto che non è compito della Bce il tema dello spread, di cui si occupano altri, in altro modo e in altre sedi. Lo ha detto sorridendo, in modo garbato e senza nessun tono di chi, fra le righe, vuole marcare la differenza da quel mitico e indimenticabile “whatever it takes” di Draghi. Ha precisato semplicemente che il differenziale (lo spread) che misura, in sostanza, il grado di affidabilità nella capacità di rimborso del proprio debito degli Stati non è compito dell’Istituzione Bce. Perciò la parte scomposta, non controllata (est modus in rebus) non è quella delle frasi della Lagarde, ma quella degli attacchi furibondi, da vena gonfia al collo, che ha ricevuto, in particolare da questo Paese. Che di fronte a quel meno 17% della Borsa qualcosa pure doveva dire.



Numeri da brivido, in effetti. Veniva voglia di cambiare sito, di aggiornare Google per vedere se c’era un errore giovedì. Impressionante. Ma può essere che “i mercati” solo per qualche frase, solo per il “metatesto” dell’intervento della Presidente della Bce, crollino in quel modo? In parte sì, questo è il mondo che volgiamo. In parte è esattamente il contrario. In queste circostanze infatti c’è una presenza fastidiosa e antipatica con cui si deve fare i conti, ed è la realtà. Vale anche, sul piano medico, se pensiamo alla condizione e alla fisionomia della sanità pubblica. Adesso finalmente, se Dio vuole, quando vedremo, nelle Asl, 12 persone dietro i vetri del Cup e 3 in reparto cominceremo a ragionare su queste cose e su quelle che dichiarano quelli che vengono chiamati esponenti della classe politica. Nel caso delle borse e della Lagarde, la realtà da considerare è l’Europa, le sue istituzioni, la sua possibilità e volontà politica di agire e ovviamente la condizione dei singoli Stati.



D’accordo con Prodi, Franco Bernabè, Carlo Cottarelli e tanti altri, gli interventi annunciati non sono per nulla sbagliati. Secondo alcuni calcoli la Tltro (cioè i prestiti alle Banche finalizzati ad attivare e mantenere il credito alle imprese) e il nuovo impulso al Qe potrebbero già coprire (non in senso tecnico) i 25 miliardi che l’Italia mette in campo come (primo) argine a questa situazione. Il problema è che questo proprio non basta.

Perché, per quanto non tutto misurabile e prevedibile, ma è ormai chiaro che questo evento si allargherà nel perimetro geografico, nell’arco temporale e nell’intensità della dimensione quantitativa. Questo è un evento epocale che trova un’Europa incapace persino di mettere in campo un tavolo unitario nel programma di contrasto sanitario ed economico al Coronavirus, a tre mesi dall’evidenza del fenomeno in Cina. Incapace di concordare persino uno schema condiviso per la classificazione di contagiati/guariti/deceduti per la malattia. Incapace di ipotizzare, in astratto, l’adozione di strumenti che hanno fatto sempre molto discutere stati ed esperti, ma di cui, in un momento eccezionale, si potrebbe almeno parlare (gli Eurobond e non solo). E non basta certo il commovente discorso in italiano del Presidente della Commissione, o la diplomatica precisazione del nostro Presidente della Repubblica, per domare la realtà in cui si muovono i mercati e, a proposito, in cui si trovano anche le persone.



Perciò oggi questo dell’Europa – dopo aver molto malamente perso l’occasione offerta il giorno dopo il referendum per la Brexit nel 2016 – è il nodo e l’occasione politica e culturale del secolo. Questo deciderà il futuro, non certo il virus. Che Europa decidiamo che sia adesso è la provocazione di questa drammatica pagina storica. Nel frattempo, qui a casa, per noi, lo scenario di cui si parlava lo scorso novembre, cioè il Mes e la riforma del Mes (il meccanismo europeo di stabilità) e ciò che ne deriva, è lo spettro di cui non si può parlare perché morde troppo l’emergenza sanitaria e umana per farlo. E perché la rappresentanza politica e parlamentare è del tutto inconsistente per farlo.

L’intervista ad Alessandro Mangia dello scorso 19 novembre spiega che cosa potrebbe voler dire “ristrutturazione del debito” per l’Italia, specie se questa fosse guidata da organismi tecnici non politici. Tema, quello del Mes, della ristrutturazione del debito pubblico al 70% in mano alle banche, che presenta molti aspetti discutibili, in senso letterale, da discutere per decifrare meglio come stanno le cose, come sono andate, come stanno andando, come si collocano nel sistema complessivo. Ma che non devono far dimenticare che l’Italia arriva malissimo a questa situazione per colpa sua. Perché ha avuto tutte le possibilità e il tempo per non arrivarci così. Persino oggi, mentre chi sa fare il suo mestiere cerca di duplicare i posti in rianimazione e di far reggere questa macchina miracolosa, cioè il sistema sanitario pubblico che sopravvive alla burocrazia politico-parentale che governa l’ Italia, gli omini della politica invece di andare ad annunciare col fazzoletto nel taschino che ce la faremo, dovrebbero cominciare, proprio adesso, a comunicare quali riforme di decenza mettono in campo con le quali l’Italia il Mes, se lo mangia col cappuccino. I mercati, si inchinerebbero.

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