Theo Waigel è stato un politico tedesco, ministro delle Finanze per ben tre governi dell’eterno cancelliere della Germania Helmut Kohl, il predecessore di Angela Merkel. Viene considerato il padre dell’euro, avendone proposto il nome nel 1995. Proprio lui, nel 2016, in un’intervista ha dichiarato serenamente che “se la Germania oggi uscisse dall’unione monetaria, allora avremmo immediatamente, il giorno dopo, un apprezzamento tra il 20 e il 30 per cento del marco tedesco che tornerebbe nuovamente in circolazione. Chiunque si può immaginare che cosa significherebbe per il nostro export, per il nostro mercato del lavoro, o per il nostro bilancio federale”. Significherebbe avere una situazione economica tedesca improvvisamente catapultata ai livelli della Grecia. E significherebbe il fallimento di tante banche tedesche.



E poi ha aggiunto: “Con un’uscita dall’euro e un taglio netto dei debiti la crisi interna italiana finirebbe di colpo. La nostra invece inizierebbe proprio allora. Una gran parte del settore bancario europeo si troverebbe a collassare immediatamente. Il debito pubblico tedesco aumenterebbe massicciamente perché si dovrebbe ricapitalizzare il settore bancario e investire ancora centinaia di miliardi per le perdite dovute al sistema dei pagamenti target 2 intraeuropei”.



Con una uscita dall’euro, e quindi con il recupero della sovranità monetaria, si possono tagliare i debiti. Lo Stato non avrà bisogno di chiedere soldi al mercato, per finanziare il welfare, l’istruzione, la ricerca o ammodernare le proprie forze di polizia o le forze armate. Potrà stamparsi il denaro necessario. Così, secondo le dichiarazioni di Waigel, la nostra crisi finisce di colpo poiché sul fronte interno si potrebbero finalmente abbassare le tasse e avvicinarsi alla piena occupazione, mentre sul fronte esterno le nostre esportazioni potrebbero rimanere uguali come volumi, ma incrementerebbero come profitti per la svalutazione della moneta.



Ovviamente, per gli stessi motivi, l’uscita dall’euro per la Germania sarebbe un disastro, proprio a causa della prevedibile rivalutazione del marco e della susseguente difficoltà a esportare. E sul fronte interno, stante l’attuale ideologica posizione di non spendere e non investire, il mercato rimarrebbe anemico com’è. Inoltre, tutti gli asset bancari stranieri (investimenti all’estero) subirebbero una svalutazione (a causa della rivalutazione del marco) e le banche, già oggi vicine al collasso, si avvierebbero al default.

Quegli economisti, soprattutto nostrani, che paventano il disastro nel caso l’Italia esca dall’euro, non riescono a immaginarsi un utilizzo della sovranità monetaria: sono così calati nell’attuale sistema che non riescono a immaginarsi un mondo dove lo Stato spende ma non chiede moneta. Parlano di “stampa di moneta a più non posso” di “far correre le rotative della Zecca” e di “produrre una galoppante inflazione”. Ma sul fatto che dalla nascita, cioè dal 2001, la Bce ha stampato moneta in eccesso preparando così la crisi attuale, su questo non hanno nulla da dire. Una cecità ideologica quasi invidiabile.

Ma occorre dire che anche Waigel non la racconta tutta. In realtà, non si tratta di un sistema “paesi del nord” contro “paesi del sud”. Si tratta invece di un sistema che, molto più semplicemente, arricchisce chi ha denaro e impoverisce chi non lo ha. L’arricchimento dei paesi del nord e l’impoverimento di quelli del sud Europa è solo una macro evidenza di questo meccanismo, che nasce in una situazione di partenza dove quelli del nord sono partiti avvantaggianti in termini di risorse finanziarie.

In ogni caso, lo stesso meccanismo (impoverimento dei poveri e arricchimento dei ricchi) è visibile anche all’interno delle singole nazioni. La differenza in Italia tra nord e sud e l’ampliamento di questa differenza in questi vent’anni è forse l’esempio più evidente, accentuato dal fatto che per la semplice disposizione geografica le regioni del nord hanno intensi scambi economici, per esempio, con la Germania, mentre le regioni del sud sono completamente assenti in questi scambi commerciali.

E lo stesso accade in Germania. Secondo un recente rapporto dell’Istituto Ricerca Economica e Sociale WSI, in questi dieci anni di crescita impetuosa per la Germania la disuguaglianza dei redditi ha raggiunto un nuovo massimo storico. Il motivo principale è quasi ovvio: le persone ad alto reddito hanno tratto maggiore beneficio dai profitti aziendali e dai rialzi delle azioni in Borsa. Ovvio, perché le famiglie povere non hanno investimenti azionari.

L’analisi per fasce di ricchezza mostra un quadro desolante, già riscontrato da Pareto circa cento anni fa: l’1% dei tedeschi più ricchi ha quasi un quinto del patrimonio netto nazionale, il 10% ha il 56%. Dopo cento anni, il libero mercato senza regole combina gli stessi disastri sociali.

Questo è il motivo per cui ora la Germania si prepara a violare le regole europee e a fare investimenti, con la scusa della crisi ambientale. Ma, a parte il fatto che con quella scusa rischia di fare gli investimenti sbagliati, ormai è tardi: se si investe oggi i risultati in termini economici si vedranno tra alcuni anni, o anche più in là. Nel frattempo la crisi finanziaria rischia di travolgere tutto. Ma almeno in Germania iniziano a essere consapevoli del problema. In Italia invece abbiamo al governo gli ultimi talebani difensori di un sistema ormai fallito, quello dell’austerità dello Stato e dell’aumento delle tasse.