Il siluro in arrivo dagli Usa è partito il 7 ottobre a pochi giorni dall’arrivo del Congresso che, nelle intenzioni del presidente Xi, dovrà accelerare la corsa verso il “secolo cinese”, una minaccia cui Washington guarda con grande serietà e preoccupazione. Assai più della sfida con Putin, pesantemente ridimensionato, comunque vada a finire, dalle disavventure in terra d’Ucraina.
È con Pechino, Paese che non rispetta i principi basilari della democrazia, che si gioca la vera partita per la leadership globale. Senza esclusione di colpi, ormai. Alla stagione della globalizzazione, quando il giovane Jack Ma, il fondatore di Alibaba, poteva sbarcare in California per apprendere i segreti della nascente economia digitale, è ormai subentrata la stagione del sospetto.
Il Presidente Biden ha infatti approvato un provvedimento che vieta le vendite a Pechino dei semiconduttori più sofisticati, la materia prima chiave del XXI secolo. D’ora in poi i chips venduti alla Cina, ovunque vengano prodotti, devono superare l’esame delle autorità Usa che vieteranno la cessione dei pezzi più avanzati sul piano tecnologico, quelli destinati alle tecnologie militari, con un occhio di riguardo per i supercomputer quantici piuttosto che per l’intelligenza artificiale. L’embargo non riguarda la grande maggioranza della produzione, vitale per l’economia cinese, che consuma i tre quarti dei chips realizzati nel mondo (556 miliardi di dollari) ma ne produce solo il 15% circa. Ma la mossa di Biden, che ha già concesso il benestare all’export di Samsung, Hynix e della taiwanese Tsmc, segna comunque un salto di qualità nel duello a distanza con il colosso giallo, con un’attenzione particolare a minare la fiducia delle classi dirigenti verso la nomenklatura.
Il provvedimento, infatti, consente di cancellare la cittadinanza e/o revocare permesso di soggiorno (nonché il diritto a comprare immobili in Usa) a coloro che intendono cedere il licensing su una larga selezione di chip sviluppati con il contributo della ricerca americana: un buon modo per colpire migliaia di tecnici cinesi che vantano solide radici negli Usa. Sono gli haigui, ovvero le “tartarughe di mare” il termine utilizzato per indicare i managers e i tecnici tornati in Cina dopo aver studiato e lavorato Oltreoceano.
Il nuovo provvedimento Usa non si limita a controllare ed eventualmente vietare la vendita alla Cina di chips che incorporano un know-how americano, ma si estende anche alle persone. I cittadini con passaporto americano o con permesso di soggiorno non potranno, pena la perdita dei diritti, aiutare “lo sviluppo, la produzione e l’impiego di tecnologie in Cina”. Un diktat che si estende oltre i rapporti bilaterali. Da tempo Washington ha intimato al Governo olandese di vietare la cessione ai cinesi delle macchine più avanzate di Asml, la fabbrica dei macchinari per i semiconduttori più avanzati.
Sale così di tono il conflitto tra le superpotenze. E non a caso il tutto avviene alla vigilia di un Congresso di cui non si sa per la verità granché. Non è ancora chiaro nemmeno se i 2.296 delegati al Congresso indosseranno o meno una mascherina anti-Covid. Logica vorrebbe di sì, la Cina resta come chiesto dal presidente Xi Jinping, il Paese della tolleranza zero. Nelle settimane passate, però, si sono registrate alcune eccezioni, non a caso in riunioni cui era presente il premier Li Kequiang. In particolare, l’obiettivo di sgominare l’epidemia prima del Congresso è stato clamorosamente fallito. E la Cina deve osservare con amarezza che i Paesi che hanno adottato tecniche e terapie “all’occidentale”, vedi il Vietnam (+7,2% il Pil di settembre), hanno largamente approfittato della stretta di Xi sull’economia.
Non è l’unica spina nella corona dell’imperatore rosso, probabilmente destinato all’incoronazione a leader assoluto della seconda potenza del pianeta. Il bilancio di Xi, infatti, è assai meno lusinghiero di quanto previsto fino a pochi anni fa. A partire dall’economia che crescerà del 3% o poco più, vittima dei lockdown, ma anche delle pressioni per riportare il controllo dell’economia sotto la guida dello Stato in nome della politica della “prosperità comune” che, in realtà, si è tradotta in un freno per le componenti più dinamiche del Paese a vantaggio delle imprese di Stato. Nel frattempo il settore immobiliare che rappresenta il 30% del Pil è entrato in una profonda crisi, in una girandola di fallimenti e default che ha provocato il congelamento dell’attività: migliaia di palazzi non finiti rimangono tali, mentre cittadini che hanno versato anticipi per una nuova casa in 320 progetti sparsi per il Paese ora si rifiutano di pagare le rate per un appartamento che non avranno mai.
La mossa di Biden, insomma, minaccia di far molto male al gigante rosso che, secondo un report di Citi, dovrebbe stanziare almeno mille miliardi di dollari per raggiungere l’indipendenza tecnologica sul fronte dei chips. Ma la stessa banca d’affari aggiunge che questo potrebbe generare una sorta di momento Sputnik sul modello della risposta che gli Usa a suo tempo seppero dare alla sfida sovietica nello spazio, moltiplicando gli investimenti in ricerca. Senza trascurare la tentazione di metter le mani sull’isola del Tesoro; Taiwan, ben più strategica di Kyiv nel drammatico risiko di questi tempi difficili.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI