La Fed – ancora una volta – non ha soddisfatto le aspettative del presidente statunitense Donald Trump che, attraverso i propri tweet, ha rimproverato Powell sia di aver nuovamente sbagliato che di essere un «comunicatore terribile». Dopo quello di luglio, il taglio di un quarto di punto sul tasso di interesse (all’1,75%-2,00%) non ha sicuramente appagato il leader della Casa Bianca. Da sottolineare come quest’ultimo, a commento della recente mossa da parte della Bce che ha ridotto i propri tassi sui depositi di 10 punti base facendoli pertanto scendere a -0,50 %, aveva definito la stessa banca centrale americana come «seduta, seduta, seduta».



Di certo, le motivazioni che Jerome Powell ha esposto durante la propria conferenza stampa non saranno state considerate sufficienti per arginare l’impeto del presidente Usa che ha voluto sottolineare come: «Jay Powell e la Federal Reserve hanno fallito di nuovo. Non hanno fegato, non hanno idea, non hanno visione». Per il presidente statunitense, oltre al livore, è presente un vero e proprio timore di sottofondo sia per quanto accade in ambito valutario (soprattutto nei confronti della moneta europea), sia sul versante economico e finanziario del Paese. E proprio il timore sulle condizioni di salute dell’economia a livello internazionale, così come le incertezze riconducibili all’ancora irrisolta trade war tra Usa e Cina, ha fatto – prudenzialmente – optare a maggioranza (7 membri favorevoli contro 3 contrari) per la via più conservativa ovvero per un taglio di solo 25 punti base lasciando intendere “certa” la prossima mossa: un’ulteriore riduzione entro la fine dell’anno.



Al termine del Federal Open Market Committee (Fomc), la stessa Banca centrale americana ha inoltre rivisto al rialzo le proprie stime sulla crescita dell’anno corrente (Pil al 2,2% rispetto al 2,1% dello scorso giugno), mentre per il 2020 vede un andamento invariato. Inoltre, i dati sull’inflazione sono rimasti stabili all’1,5% e all’1,8% (rif. “core”) mentre la disoccupazione viene vista in lieve risalita al 3,7% (contro il precedente 3,6% di giugno), ma soggetta a una crescita occupazionale «solida, in media, negli ultimi mesi con un tasso di disoccupazione rimasto basso»; all’opposto delle famiglie, dove si rileva come la loro spesa sia stata «forte», gli investimenti e le esportazioni appaiono «indeboliti» (fonte Radiocor). Sempre la Fed ha voluto ribadire il proprio monito (confortate) come già accaduto a luglio: «continuerà a monitorare le implicazioni delle informazioni in arrivo relative all’outlook economico e agirà in modo appropriato per sostenere l’espansione, con un mercato del lavoro forte e un’inflazione vicina all’obiettivo simmetrico del 2%».



E per tale approccio prudenziale – in queste ultime 48 ore – è opportuno evidenziare quanto è accaduto – e sta accadendo – sul mercato monetario Usa. La Federal Reserve ha immesso un ammontare complessivo di oltre 130 miliardi di dollari sottoforma di “Repurchase Operation” (o cosiddetta “repo”) al fine di «aiutare a mantenere i tassi dei federal fund all’interno del range che va dal 2% al 2,25%» (rif. comunicato stampa presente sul sito internet della Fed). L’intera operazione ha visto assorbire una prima tranche pari a 53 miliardi (sui 75 miliardi offerti) nel corso di martedì e un’ulteriore immissione (ieri) per una domanda di oltre 80 miliardi. Si tratta di un intervento che vede la propria “funzione stabilizzatrice” in ambito di prestiti a brevissimo termine (prevalentemente overnight) con la sua ultima messa in opera nel 2008.

Appare curioso l’insieme congiunto di queste prudenziali “azioni monetarie” (taglio dei tassi e “repo”) sia per la loro modalità che per i tempi che fanno ricordare (2008). L’intero quadro dovrebbe far riflettere soprattutto in ottica di potenziale contrazione economica statunitense che – attualmente – vede il proprio futuro prossimo a un possibile stato recessivo nonostante le convinzioni (contrarie) dello stesso Powell.