Tassi giù senza esitare. Alla Federal Reserve, a giudicare dalle dichiarazioni dei banchieri centrali Usa, non mancano le perplessità di fronte alla svolta espansiva sollecitata sia da Donald Trump che da Wall Street, a caccia di motivazioni per prolungare la lunga corsa che dura ormai da dieci anni. Ma dal 2009, l’anno del tracollo di Lehman Brothers, la ripresa non ha mai veramente convinto. L’unica arma per alimentare la crescita è stata la continua e costante immissione di liquidità attraverso il calo dei tassi a breve e lungo termine.



Ma adesso? Il mondo galleggia su un mare di bond a tasso negativo per 16 mila miliardi di dollari in costante crescita. I titoli del debito di tre Paesi (Germania, Svizzera e Svezia) rendono meno di zero in tutte le scadenze, trentennali compresi. Certo, l’offerta dei Bund zero coupon lanciata dalla Germania è finita in un mezzo flop. Ma la strada è segnata: i mercati anticipano la previsione di interessi sotto zero sia per il Giappone che per i due terzi d’Europa, mentre gli stessi bond Usa si avvicinano ai livelli più bassi della storia. Ma fino a quando si può battere la strada dei tagli di politica monetaria senza intervenire su tutto il resto, a partire dalla politica fiscale?



Non è una domanda nuova. Cinque anni fa a Jackson Hole Mario Draghi sollecitò l’uscita dalla logica dell’austerità invocando “un ruolo politico più rilevante per la politica di bilancio” dei vari Paesi. La richiesta si ripropone oggi più forte che mai: la congiuntura, distinta dall’inflazione che dorme nonostante l’aumento del debito pubblico, a partire dagli Usa offre alle banche centrali la possibilità di andare molto più in là. Che senso ha parlare di tagli e sacrifici, si chiede Olivier Blanchard, ex capo economista dl Fondo monetario internazionale, quando nel giro di pochi mesi il calo dei tassi ha permesso alla Francia di tagliare il deficit di due miliardi assorbendo i costi delle misure prese per fronteggiare la protesta dei gilets jaunes?



Un tris di economisti di grande prestigio (Stanley Fischer, già numero due della Fed, Philippe Hildebrand, ex banchiere centrale svizzero, e Jean Boivin, che è stato ai vertici della Bank of Canada) ha avanzato una proposta shock: mettere a punto un meccanismo che consenta, quando la situazione lo imporrà, di mettere soldi direttamente nelle tasche della gente. Il tutto con un obiettivo preciso: ripetere, su scala allargata e con obiettivi ancor più ambiziosi, la sfida lanciata da Draghi sette anni fa, quando annunciò l’intenzione di difendere l’euro a ogni costo. Oggi il messaggio dei banchieri, sponsorizzato da BlackRock, è di destinare tutte le risorse per rimettere in moto le economie a partire dalla fiducia, la vera vittima della crisi che ha fatto venir meno, a ogni latitudine, l’idea stessa di una società votata al progresso distribuito lungo l’intera scala sociale.

Non è l’unica proposta sul tappeto. Gli strumenti per scongiurare la recessione sono numerosi. Né la Fed, né la Bce hanno fatto Quantitative easing azionari o immobiliari, né hanno comprato grandi quantità di bond esteri. Ma più della scelta degli strumenti conta individuare gli obiettivi: vale per gli Usa, ove Trump sembra pronto a tutto pur di sostenere la congiuntura fino alle prossime elezioni, vale per la Germania ove si discute se sia il caso di passare dal surplus di bilancio a un modestissimo 0,35% di disavanzo con 12 miliardi di spese per l’ambiente. Vale anche per la piccola e travagliata Italia che, comunque vada la partita politica, presto dovrà fare i conti con la necessità di raccogliere una cifra massiccia per far fronte agli impegni della finanza pubblica, ma anche di rimettere in moto la macchina dei investimenti.

La strada è in salita, come sempre. Ma, dato l’andamento dei tassi, la situazione è senz’alto migliore che in passato. I soldi, infatti, si possono trovare e, per giunta, a un tasso in discesa. Purché i mercati capiscano dove vogliamo andare.