Al momento in cui viene scritta questa nota, non è stato ancora finalizzato il decreto legge che dovrebbe portare sollievo alle categorie e ai settori più colpiti dal coronavirus e relative restrizioni, nonché facilitare la ripresa. Dalle bozze che circolano (pessima abitudine) si sa, tuttavia, che nel “decretone” di circa 120 pagine ci dovrebbe essere un’ampia gamma di misure, per un totale di 15-20 miliardi, dirette ad alleviare il peso del rallentamento dell’economia soprattutto su lavoratori dipendenti e famiglie. Misure indubbiamente utili, ma non tali da affrontare la recessione prossima ventura oppure tali da contraddistinguere una strategia che, anche per mancanza di una visione comune all’interno dell’Esecutivo, è quella di procedere a piccoli passi. Come si è fatto a proposito delle restrizioni per contrastare il contagio da “coronavirus”, neutralizzando parte delle misure stesse. Si pensi che in Germania, la Cancelliera Angela Merkel ha fatto intendere che è in preparazione un programma di oltre 500 miliardi di euro (che potrebbe anche portare la Repubblica Federale fuori dall’unione monetaria) e credito illimitato alle imprese.
A mio avviso, il nodo di fondo è che il Governo non ha chiaro quale recessione si stia preparando in Europa in generale e in Italia in particolare e come ci sia il rischio che a essa si accompagni una vera e propria bomba del debito, soprattutto di quello corporate, ossia delle imprese non finanziarie. È utile ricordare che crisi finanziarie in senso lato (bancarie, valutarie, del debito sovrano) si sono verificate in 15, 62, 67 e 38 Paesi rispettivamente durante le recessioni del 1975, del 1982, del 1991 e del 2009. Questa volta il matrimonio tra recessione e crisi finanziaria potrebbe essere più grave e riguardare un numero maggiore di Paesi.
Francesco Daveri, della Business School dell’Università Bocconi, ha fatto un’utile riflessione su uno degli ultimi numeri de lavoce.info. In breve, in Italia – ricorda Daveri – ci sono già state due gravi recessioni recenti descrivibili come una V e una U nel 2008-2009 e nel 2011-2013. Quella del 2008-2009 può essere descritta come una V (un po’ asimmetrica nella parte crescente) perché la ripartenza dopo il crollo è stata rapida anche se non molto robusta. Il Pil scese del 7,3 per cento in cinque trimestri nel 2008 e nei primi mesi del 2009 e poi risalì del 3,3 per cento nei successivi sette trimestri. Fu una recessione in cui a crollare furono soprattutto le esportazioni (-24 per cento) e gli investimenti (-15 per cento), dunque a essere coinvolte furono soprattutto le imprese, e in particolare quelle attive sui mercati esteri (pari solo l’8 per cento del totale), mentre la riduzione dei consumi delle famiglie fu più contenuta (-2 per cento). Quando l’economia tornò a crescere, le imprese più dinamiche, che erano state le più colpite, ricominciarono però subito a macinare fatturato. Da qui la rapida ripartenza e dunque la V della figura.
A metà 2011 arriva la crisi dell’euro soprattutto nei paesi del Sud Europa. Ciò porta con sé l’interruzione della ripresa e l’inizio di una nuova grave recessione da cui l’Italia fa più fatica a riprendersi. Nel 2011-2013 il calo del Pil durò sette trimestri, seguiti da otto trimestri di stagnazione e poi dalla ripresa iniziata nel 2015 e proseguita fino ai primi mesi del 2018. Per quanto anche in questo caso non completamente portata a termine nella sua parte ascendente, è una U, non una V. Nel 2011-13 il calo del Pil è meno intenso e quantitativamente meno rilevante di quello osservato nel 2008-2009 (-23 miliardi in sette trimestri contro i 33 miliardi in cinque trimestri del 2008-2009). Ma c’è la stagnazione e una lenta ripresa, che guadagna consistenza con il passare dei trimestri fino a compensare quasi del tutto la perdita subita durante la recessione. A calare sono i consumi e il mercato interno: quindi si trattò di una recessione molto diffusa, sociale oltre che economica, che ha lasciato gravi segni nel tessuto economico con la scomparsa di tante imprese e il crollo dell’immobiliare e del settore delle costruzioni anche perché alla crisi di fiducia con aumento dello spread si sommò l’adozione di necessarie politiche di bilancio restrittive.
Occorre chiedersi come sarà la recessione iniziata nel quarto trimestre 2019. È cominciata quasi in sordina alla fine dell’anno scorso. Ora, però, siamo alle prese con un crollo verticale della produzione e una sua vasta estensione orizzontale, anche a ragione della chiusura di esercizi commerciali e di un rallentamento della produzione industriale in tutta Italia, nonché la flessione dell’export. La caduta è, a mio avviso, a Ⅰ. Occorre chiedersi cosa si deve fare per farla diventare a Ⅰ/ o simili.
Ci possono essere ragioni di ottimismo a ragione dello sviluppo tecnologico dal 2011-12 a oggi che, con un’adeguata politica europea e nazionale, potrebbe facilitare una relativamente rapida ripresa “dopo la caduta” (per parafrasare il titolo di un bel lavoro d’Arthur Miller). Della politica europea si vedono segni (quali la sospensione del Fiscal compact). Se ne vedono meno da parte di una politica italiana caratterizzata da incertezze e passi maldestri.
Su queste prospettive, si staglia la bomba del debito. Alla fine della scorsa settimana uno studio di Cerdar Selik e Mats Isaksson dell’Ocse ha stimato in 13,5 milioni di miliardi di dollari il totale del debito delle imprese non finanziarie. È stato accumulato, in gran misura tramite emissioni di obbligazioni, in anni di crescita in molti Paesi industriali a economia di mercato (l’Italia era tra i pochi in ristagno) e bassi tassi d’interesse. Già un anno fa, uno studio del Fondo monetario relativo al corporate debt di otto Paesi (Usa, Cina, Giappone e i principali Paesi Ue) concludeva che uno shock pari alla metà di quello del 2008-2009 avrebbe messo a rischio il 40% del debito delle imprese e causato una catena di fallimenti. Occorre dire che non tutti sono così pessimisti: al Peterson Istitute for International Economics di Washington, ad esempio, si prevede che proprio a causa della recessione, le banche centrali non faranno mancare liquidità al sistema, i tassi d’interesse resteranno bassi e il corporate debt cavalcherà la crisi.
Il problema, tuttavia, c’è e non può essere ignorato. Specialmente da un Paese come l’Italia dato che un’esplosione del corporate debt avrebbe implicazioni drammatiche per chi ha un alto debito sovrano.