Diceva una volta un banchiere centrale degli anni Cinquanta, ricorda il professore Marco Onado, che il segreto della politica monetaria era portare via l’alcol prima che i partecipanti alla festa diventassero troppo brilli. È quello che fece all’inizio degli anni Ottanta Paul Volcker, che riuscì a debellare l’inflazione, cioè a porre fine alla trappola di inflazione con bassa crescita del decennio precedente. Da allora, a poco a poco, i banchieri centrali hanno lasciato sempre un po’ più a lungo gli alcolici sul tavolo, fino al dilemma attuale: lasciare impazzare ancora la festa dei mercati o richiamare tutti di colpo alla dura realtà?
È scontato che, sotto il forcing di Donald Trump, la Fed sceglierà la strada dell’ammorbidimento monetario. In linea con quanto farà la Bce. E non solo. Prima delle decisioni di Bce e Fed i mercati hanno già registrato nell’ultima settimana i tagli decisi dalle autorità monetarie di Corea del Sud, Indonesia e Sud Africa. Prima in primavera a muoversi erano state le banche centrali di Nuova Zelanda, India, Malaysia e Filippine. Facile prevedere che, dopo gli interventi delle due istituzioni più importanti, presto potrebbe muoversi anche la Bank of England, seppur paralizzata dalle tensioni sul futuro della Brexit. Né va trascurata, ovviamente, la serie di interventi espansivi (e sul cambio dello yuan) che hanno caratterizzato la politica monetaria cinese sotto la pressione dell’offensiva di Donald Trump sui dazi.
L’allentamento della politica monetaria si accompagna all’aumento del debito, altro dato che caratterizza le economie, sia quelle avanzate che quelle ormai impropriamente definite emergenti come la stessa Cina. L’aumento del debito è sempre più connesso alla crescita. Un po’ ovunque, a partire dagli Usa, dove il debito pubblico l’anno scorso è cresciuto del 6%.
Niente di drammatico, almeno fino a quando il rendimento marginale dei capitali presi in prestito non scende sotto certi livelli. A quel punto sarà necessario sempre più debito per creare un’unità di Pil. Di qui la prospettiva, ormai dibattuta in sede Ue, di rivedere il target dell’inflazione nell’Eurozona (vicino al 2%), punto di riferimento delle politiche monetarie per adottare un target di inflazione che possa sconfiggere la stagnazione secolare che caratterizza la situazione odierna.
Una mossa del genere, senza troppa pubblicità, è stata al centro di un recente incontro della Federal Reserve in cui si è discussa proprio l’adozione di un nuovo obiettivo di inflazione: non più un obiettivo annuale, da tempo il 2%, ma un obiettivo medio di lungo periodo, sempre del 2%. La differenza? Nel primo caso ogni anno si ricomincia da capo e, se l’anno precedente l’inflazione è stata, poniamo, dell’1,5%, l’anno seguente avrà comunque il 2% come obiettivo. Nel secondo caso, invece, se nei dieci anni precedenti l’inflazione effettiva è stata dell’1,5%, nei prossimi dieci, per compensare, dovrà essere del 2,5%. Facile che il nuovo sistema venga adottato nel 2020, in sintonia con una decisione simile da parte della Bce affidata a Christine Lagarde.
Insomma, si cercano modi per alzare l’obiettivo di inflazione (o la tolleranza verso l’inflazione) senza dire di farlo. E le banche centrali obbediscono, strette come sono dalle richieste dei governi in attesa che la prossima crisi finanziaria non spezzi il gioco che, tra l’altro, fa affluire fiumi di ricchezza sui mercati finanziari. A meno che qualcuno non abbia, prima o poi, il coraggio di ritirare la bottiglia dal tavolo.