Il rendimento del decennale italiano ieri ha toccato i minimi da fine maggio 2018, quando l’inatteso Governo giallo-verde faceva presagire una fase di attrito tra Italia e istituzioni europee. Se siete smarriti da questa notizia a pochissimi giorni da titoli tragicomici sullo “spread” è tutto normale. Infatti su questa vicenda c’è una versione ufficiale senza senso e una vera. Portate pazienza per qualche riga. Ieri il ministro dell’economia Tria ha dichiarato che il deficit del 2019 sarà al 2,1%-2,2% del Pil, che l’Italia rispetterà il patto di stabilità nel 2019, che l’Italia avrà con la Commissione europea un dialogo serrato e costruttivo e, soprattutto, che “è interesse dell’Italia ad arrivare a un compromesso con l’Ue e a normalizzare l’andamento dei titoli di stato italiano”.



Facciamo un passo indietro. Settimana scorsa sono successe molte cose, anche se in superficie non è successo nulla e abbiamo lo stesso Governo di un mese fa. Sono successe due cose: il Governo non è caduto e il senatore della Lega Bagnai ha pubblicato un articolo sul Financial Times in cui, palesemente, si “sfidavano” le istituzioni europee con un approccio assolutamente non bellicoso e collaborativo. Possiamo riassumere il contenuto del pezzo in modo brutale, e chiediamo subito scusa, così: noi abbandoniamo propositi bellicosi e di contrapposizione, in cambio voi ci garantite le condizioni minime per sopravvivere a questa fase geopolitica complicata, per evitare una recessione e per provare a fare un po’ meglio “sulla crescita”.



La “palla” è nel campo delle istituzioni europee e di quel ristretto club che le governa e che spessissimo ha interessi confliggenti con quelli italiani. È chiaro a tutti che nell’attuale costruzione europea l’Italia è in un vicolo cieco anche se avesse un Governo formato dal meglio, del meglio del meglio della politica globale. Non si può uscire da due recessioni devastanti in cinque anni (2008/2009 e 2011/2012) senza alcuna flessibilità fiscale, senza alcuna flessibilità valutaria e senza alcuna flessibilità commerciale perché intrappolati in un’area che, sul fronte dei dazi, si muove, inevitabilmente, come un corpo unico. Questo lo capiscono tutti. Oltretutto l’Italia ha una valuta che viene “battuta” da un potere, buono o brutto non ci importa, esogeno e che oggi è controllato da un gruppo di stati che mette i propri interessi prima di quelli “comunitari”. Una colonia sostanziale.



Sono anni che ci tocca sentire che sono i mercati a muovere lo “spread”; abbiamo sentito queste follie ancora pochi mesi fa quando in tutto il mondo ci sono deficit fuori controllo, debiti pubblici esplosi e si parla ormai apertamente di monetizzazione del debito. C’è qualcuno che ha provato a sostenere queste tesi persino nell’autunno scorso e ancora in queste settimane. Le vicende italiane e di una nazione che ha ancora avanzo primario e deficit ridicoli si giocano solamente nella relazioni con la Bce e le istituzioni europee dato che la Bce è abbastanza grande da far rientrare qualsiasi anomalia nello spread in tempi rapidi, come dimostrato benissimo a giugno del 2012. Oggi non spieghiamo lo spread che scende con lo “sblocca-cantieri” esattamente come non spiegavamo lo spread che saliva con i “mercati” o con il reddito di cittadinanza a novembre quando si prometteva il deficit più basso degli ultimi dieci anni.

Nell’Unione europea gli “spread” non dovrebbero esistere e, certamente, non dovrebbero essere frutto di debiti pregressi e tantomeno di debiti provocati da recessioni globali. L’esplosione del debito pubblico italiano degli ultimi dieci anni è tutta e completamente spiegabile alla luce della recessione post-Lehman e delle politiche di austerity. Soprattutto le seconde hanno divaricato la performance con la Francia che faceva deficit all’8% e non faceva le riforme come mai accaduto. Quello che è successo è evidente a chiunque non abbia sugli occhiali la coltre dell’ideologia.

Oggi l’Italia prova a ottenere dall’Europa un patto più equilibrato di quello folle contrattato dai governi degli ultimi dieci anni; chiede condizioni minime sufficienti per poter sperare di uscire dalla recessione e cioè un po’ di leva fiscale di spesa pubblica e sicuramente spread “normali” in modo da poter giocare nell’area euro con le stesse possibilità di tutti gli altri, o, almeno, con meno handicap di quelli degli ultimi dieci anni. Adesso bisogna vedere cosa risponderà l’Unione e poi tra qualche trimestre come l’Italia si sarà giocata, sempre ammesso che l’ottenga, questa possibilità.

Lo spread è talmente politico che lo 0,2% in meno rispetto a novembre ha fatto scendere dai massimi il rendimento del decennale di quasi 100 punti. Il futuro economico dell’Italia non può migliorare senza un accordo migliore in Europa. Questa non è una condizione sufficiente ma sicuramente è necessaria. I “mercati” capiscono immediatamente se le istituzioni europee decidono o meno di “coprire” questo accordo e l’Italia. E se lo fanno lo spread scende. Se l’Europa non ci dà un “deal” migliore e diverso le alternative sono solo due: grecizzazione dell’Italia o rottura dell’euro oppure entrambi.

Vediamo quale accordo strappa questo Governo, per quanto e per fare cosa. Nel frattempo fino a che le due parti parlano e nessuna delle due chiude lo “spread” scende perché nessuno si vorrà mai trovare nel 2019 contro una banca centrale della dimensione della Bce. Se invece nemmeno il 2,1% basta e nemmeno in questa fase del contesto internazionale e per l’Italia c’è solo “austerity” e l’attuale applicazione asimmetrica delle regole, allora c’è davvero da preoccuparsi. Significa che la ripresa non può avvenire dentro l’euro e che o si accetta questo stato di cose, una “colonizzazione” che però tutela le rendite, oppure si deve uscire.