Non ha senso, visto l’approccio di Donald Trump, andare avanti a trattare con Washington. È quanto sostiene un articolo apparso su un blog dell’Economic Daily, autorevole giornale online, subito ripreso dall’agenzia di stampa Xinhua e dal Quotidiano del Popolo. La misura è colma, si sostiene, dopo la decisione di cacciare Huawei, fiore all’occhiello della tecnologia made in China (molto vicino all’esercito) dalle relazioni con gli Usa: le aziende americane non potranno più comprare apparati dell’azienda cinese, mentre Nvidia, il gioiello dell’industria dei chips a stelle e strisce, non potranno più vendere i suoi semiconduttori, preziosi per realizzare le reti 5G.



Di fronte all’offensiva americana, culminata nei dazi imposti all’import dal Drago, Pechino sta reagendo con la progressiva svalutazione dello yuan per compensare l’effetto delle maggiori tariffe, e, a partire dallo scorso settembre, ha progressivamente ridotto lo stock di titoli del Tesoro americano in bilancio, che da sempre sostengono il deficit Usa. Per tutta risposta, Donald Trump, più che mai convinto che alla fine gli Stati Uniti prevarranno, ha aumentato il pressing nei confronti della Fed. La banca centrale deve allentare i cordoni della borsa e farsi carico dei titoli che la Cina non vuole più: la Fed ha comprato 4 trilioni di titoli pubblici con il Quantitative easing e ora ne sta vendendo uno con il Quantitative tightening. Se questo trilione venisse usato per assorbire temporaneamente o definitivamente la vendita cinese, torneremmo alla dimensione che l’attivo della Fed aveva un anno fa. Tutto qui. Ma così viene meno il concetto di indipendenza della banca centrale, arruolata dalla Casa Bianca in una guerra che non comporta il versamento di nessuna goccia di sangue, ma implica ugualmente un ricompattamento psicologico tra società civile e Stato o, almeno, all’interno delle articolazioni dello Stato.



La Cina ha fatto in questi giorni un enorme salto in questa direzione, dichiarando il conflitto con l’America una guerra di popolo. Gli Usa, divisi più o meno su tutto, dall’aborto al Russiagate, su questo sono compatti: repubblicani e democratici assieme contro il nemico “giallo”. La Fed è pronta ad adeguarsi ribaltando la politica di riduzione del bilancio della banca centrale. Invece di prepararsi alla prossima recessione accumulando “munizioni” finanziarie con una stretta dei rendimenti (come si pensava fino a pochi mesi fa), si va nella direzione opposta: Lael Brainard, autorevole membro del Fomc, propone per la prossima recessione una policy per cui la Fed annuncia che terrà i tassi a zero finché occupazione e inflazione non raggiungeranno un livello prefissato. La Brainard propone anche che la Fed faccia targeting di curva fino alla parte intermedia. “Non siamo ancora al Giappone – scrive Alessandro Fugnoli -, che mantiene anche il 10 anni in una fascia strettissima, ma ci stiamo avvicinando”.



Che effetti avrà la guerra sull’Europa che assiste passiva, alla vigilia del voto, al confronto che mette a rischio gli equilibri del pianeta? Germania e Giappone rischiano di essere le due principali vittime di un cambio di paradigma che mette in discussione i valori di strutture economiche export oriented a partire dalla Germania. Un passaggio insidioso, soprattutto perché coincide con una fase assai delicata sul piano dell’evoluzione delle tecnologie.

L’economia di Berlino, auto in testa, sta soffrendo il passaggio dall’economia analogica al digitale. La Germania, che da un secolo almeno può contare sulla sua supremazia tecnologica, fatica a tenere il passo ai tempi del digitale, superata dall’Asia e dai giganti della new economy a stelle e strisce. La reazione è già partita, come dimostrano gli enormi investimenti programmati da Volkswagen. Ma ci vorranno tempo e capitali.

All’apparenza la situazione può giovare all’Italia, visto l’allentamento generale delle condizioni di credito. Ma in realtà la forbice tra il Bel Paese e le varie locomotive sembra destinato a crescere. E l’Italia non è certo la favorita nella gara per conquistare i fondi necessari per finanziare lo sviluppo. Il rischio è che, anche dopo il voto europeo, i costi imposti dal bilancio pubblico possano impennarsi verso l’alto, tradendo le attese della maggioranza giallo-verde che, tra tante divisioni, condivide la speranza che saltino i parametri dell’eurozona, anche a rischio di mettere a repentaglio la moneta comune. Ma è difficile che, in tempi di guerra commerciale, qualcuno intenda fare sconti.